- scritto da Mario Rosato
- categoria Plastica
L’isola che (ancora) non c’è: il problema della plastica negli oceani
Secondo il capitano Charles J. Moore, fondatore dell’Algalita Marine Research Institute e scopritore, nel 1997, dell’isola di rifiuti galleggianti conosciuta come Pacific Trash Vortex, le dimensioni di quest’ultima stanno aumentando a ritmo sostenuto. Ciò che gli oceanologhi chiamano gyres (vortici, in italiano) è un fenomeno naturale, causato dall’incontro di più correnti marine, le quali formano delle zone di relativa quiete, nelle quali i rifiuti rimangono intrappolati e tendono ad aggregarsi per l’azione del moto indotto dalle onde marine.
Smaltimento dei rifiuti: il fungo mangia plastica
Il più grande di questi vortici, appunto quello dell’Oceano Pacifico, contiene secondo le stime del capitano Moore fra tre e cento milioni di tonnellate di detriti di plastica che si sono accumulati nella zona. Nell’ultima sua spedizione, il capitano Moore ha trovato una piccola porzione nella quale si sono aggregate reti e boe, diventata così compatta da poter camminarci sopra.
Certamente il progetto della olandese WHIM Architecture, consistente nella creazione di una vera isola abitabile utilizzando i rifiuti accumulati nel vortice, risulta piuttosto utopico e improbabile per una serie di motivi: innanzitutto perché i rifiuti galleggianti non costituiscono uno strato solido, poi perché una ipotetica isola galleggiante, sottoposta al profilo di onde molto lunghe esistenti in mare aperto, avrebbe dei grossi problemi strutturali che non si possono di certo risolvere utilizzando spazzatura eterogenea e parzialmente aggregata, e finalmente perché la plastica si fotodegrada, spaccando gli oggetti galleggianti in pezzi via via più piccoli, fatto che condannerebbe l’ipotetica Recycled Island ad affondare lentamente sin dalla sua costruzione.
La rimozione della plastica dagli oceani non è purtroppo una opzione fattibile: secondo ricercatori dell’Università dell’Oregon per condurre un’operazione di pulizia dei mari ci vorrebbe una quantità di energia (petrolio) pari a 250 volte la massa di rifiuti.
È stato scoperto che i pezzi di medie dimensioni, in particolare i sacchetti di plastica, vengono colonizzati da batteri ma non sembra che questi siano in grado di biodegradare la plastica, e forse questa possibilità non è nemmeno auspicabile. Non è ancora del tutto chiaro ma sembra che le molecole di plastica parzialmente degradata passano dai batteri al plankton e si accumulano man mano che si sale nella catena trofica, per cui il tonno ed il pesce spada che arrivano alle nostre tavole contengono quantità notevoli di molecole potenzialmente dannose.
Si stima che circa un milione di uccelli marini e centomila esemplari, fra mammiferi e tartarughe marine, muoiono per l’ingestione di pezzi di plastica, in particolare quella trasparente, che gli animali confondono con le meduse che formano parte della loro dieta abituale. Nello stomaco di una balena morta, rinvenuta nelle coste di Granada in Spagna, furono ritrovati circa 20 kg di plastica, per lo più proveniente dall’industria agricola (plastica di serre, due vasche, un pezzo di tubo d’irrigazione). Purtroppo non si tratta di un caso isolato, in quanto sono stati già rilevati 14 esemplari morti per la stessa causa dal 1996.
La spedizione spagnola della nave oceanografica Malaspina ha confermato l’esistenza di cinque vortici di spazzatura galleggiante: quello del Pacifico Nord citato all’inizio (il più grande), uno più piccolo nel Pacifico Sud, due nell’Atlantico Nord e Sud rispettivamente e uno nell’Oceano Indiano.
Nel Mediterraneo non c’è (ancora) una chiazza di rifiuti galleggianti ben definita, ma purtroppo l’Italia detiene il triste primato della massima concentrazione di rifiuti galleggianti. Secondo lo studio di Legambiente di quest’estate, le massime concentrazioni ritrovate sono 27 oggetti/kmq nell’Adriatico e 26 pezzi/kmq nel Tirreno, costituiti da oltre il 20% di rifiuti da attività peschiere (galleggianti, corde, reti), e oltre il 30% di bottiglie di plastica.
Il contaminante plastico più subdolo che si trova in mare, secondo molti ricercatori, sono le microplastiche, fatto verificato dai ricercatori della Malaspina durante la loro spedizione attorno al mondo. Le microplastiche sono di due tipi: da una parte troviamo i pezzi di piccolissime dimensioni, staccatisi da oggetti macroscopici come le bottiglie di plastica, per l’effetto combinato della fotodegradazione e l’azione meccanica del mare, e l’altro tipo, purtroppo quello più abbondante, si potrebbe facilmente eliminare: le piccole sferette di plastica che vengono aggiunte a tante creme, saponi e prodotti cosmetici con la finalità di dermoabrasione leggera o scrub.
Secondo il dott. Andrew Watts, dell’Università di Exeter, le microsfere degli scrub possono penetrare negli organismi marini sia per ingestione che attraverso le branchie (in particolare quelle dei granchi e delle cozze). In questo secondo caso, l’eliminazione è molto più lenta, per cui aumenta la possibilità che l’animale contaminato venga mangiato da un predatore e finisca poi nella nostra tavola.
Secondo lo stesso autore, circa 11 milioni di tonnellate di plastiche vanno a finire in mare ogni anno, producendo le microplastiche del primo tipo, mentre le microsfere di plastica prodotte dall’industria cosmetica sono di più difficile contabilizzazione. Secondo lo studio citato previamente, solo negli Stati Uniti ogni anno finiscono nelle fognature, e da queste nei fiumi e nei mari, qualcosa come 1.200 mc di microsfere di plastica. Può sembrare poco, comparato con le enormi quantità di rifiuti plastici macroscopici versarti in mare, ma dato il loro enorme potenziale di “amplificazione della tossicità” per il sistema trofico marino, lo stato di New York ha già vietato la vendita di prodotti contenenti microsfere plastiche su tutto il territorio, e in Inghilterra è stata lanciata una iniziativa simile, ostacolata (ovviamente) dalle grandi multinazionali come P&G e dalla catena di supermercati Tesco.
La contaminazione dei mari con plastica è un fenomeno di proporzioni globali, il cui impatto sul Pianeta risulta difficile da prevedere, ma si presuppone che non sia inferiore a quello causato delle emissioni di CO2 in atmosfera. Per questo motivo, le Nazioni Unite propongono l’utilizzo di una metodologia per misurare l’“impronta di plastica” delle attività industriali, e non solo la loro “impronta di carbonio”.