- scritto da Giovanna Barbaro
- categoria Smaltimento e riciclo
Detriti edili: rifiuti o risorse? Il ruolo chiave del responsabile tecnico
La sostenibilità del settore delle costruzioni deve necessariamente passare per la corretta gestione dei rifiuti edili: recuperare, riutilizzare, nonché contrastare il fenomeno dell’abbandono dei materiali di scarto, o componenti dismessi, nelle varie matrici ambientali determinando il loro deturpamento. Ma qual è la normativa che regola la gestione dei materiali generati nei cantieri e ci consente di distinguere inequivocabilmente ciò che è rifiuto da ciò che invece è sottoprodotto riutilizzabile nel ciclo produttivo come risorsa? Quale legislazione considera le infrazioni relative alle modalità di: deposito temporaneo, recupero, riutilizzo e trasporto? Facciamo dunque il punto facendo seguito ai nuovi correttivi del D.lgs. 152/2006.
L’ABBANDONO DI DETRITI EDILI INDIFFERENZIATI
Già negli anni ’90 emerse la grandezza del fenomeno dell’abbandono dei “rifiuti” edili: il 92% della produzione annuale degli scarti attribuiti all’attività edilizia, circa 3,5 tonnellate procapite, proveniva da attività di micro demolizione, quindi non dalle grandi opere contrariamente alla logica comune. Gli interventi edili di piccola taglia sono realizzati da non nostrani che, come quest’ultimi, sono dotati di una buona dose di leggerezza e improvvisazione, oltre d’ignoranza verso le leggi locali. Non parliamo poi degli interventi di ristrutturazione “fai da te” realizzati dallo stesso committente, il quale, pur di risparmiare, preferisce inquinare. Teniamo presente che i danni ambientali ricadono sulla collettività e si manifestano anche a distanza di tempo. Citiamo il caso eternit, esempio eclatante d’inquinamento da rifiuti edili pericolosi recentemente sulle prime pagine di tutti i quotidiani per sentenze esemplari contro i colpevoli, per segnalare che purtroppo spesso ci accorgiamo degli effetti negativi sulla salute e sull’ecosistema quando è già troppo tardi. In questi casi, le operazioni di bonifica ambientale sono operazioni utili a contenere solo in minima parte un danno in realtà già subito, spesso irreversibile per gli esseri viventi. Non ci dobbiamo meravigliare se nel settore delle costruzioni il rispetto per l’ambiente è diffusamente disatteso, quando l’inottemperanza alle norme sulla tutela dei lavoratori, sui relativi contributi, nonché l’impiego massiccio di clandestini, sono da tempo prassi consolidate grazie all’inefficacia dei controlli da parte degli enti competenti. Trovano pure libertà d’azione, per intuibili ragioni, altri fenomeni legati al settore delle costruzioni, non di certo alieni ai reati ambientali: l’abusivismo edilizio e le “eco” mafie.
LEGISLAZIONE AMBIENTALE E DEFINIZIONI
Il D.Lgs. 152/2006 ha istituito il c.d. Codice dell’Ambiente, successivamente aggiornato, con ben 35 decreti correttivi, gli ultimi risalgono a gennaio del 2012. Seppure costituendo la trasposizione nazionale di numerose direttive UE, il menzionato decreto non ha istituito un vero e proprio codice, poiché, secondo i giuristi, non recepisce tutte le norme comunitarie in materia di tutela ambientale. E’ piuttosto un provvedimento nazionale di riferimento nei seguenti ambiti di applicazione:
- Valutazioni e autorizzazioni ambientali (VIA, VAS, IPPC)
- Difesa del suolo e tutela delle acque
- Gestione dei rifiuti
- Riduzione dell’inquinamento atmosferico
- Risarcimento danni ambientali
E’ importantissimo tener in conto che, accanto alla disciplina introdotta dal provvedimento, è obbligatorio considerare le regole UE “self executing” – ad esempio i regolamenti su import–export dei rifiuti – direttamente applicabili nell’ordinamento di ciascuno stato membro europeo. Per dipanare dubbi sul diritto ambientale, in continuo divenire è opportuno considerare le sentenze pertinenti emesse dal Consiglio di Stato e dal T.A.R., nonché dalla Corte di Cassazione Penale. E’ bene non sottovalutare i reati ambientali in quanto molti sono regolati dal diritto penale, le cui sanzioni son ben superiori a quelle stabilite dal diritto amministrativo proprio perché “macchiano” indelebilmente la fedina penale. Vediamo allora i principi di una corretta gestione dei materiali di risulta dai cantieri e le responsabilità in materia ambientale degli attori coinvolti.
Definizione di rifiuto
L’articolo 183, comma 1, lettera a) definisce rifiuto come: “…qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione, o abbia l’obbligo, di disfarsi.” L’allegato “A”, a cui si riferiva la definizione precedente, non è più considerato una fonte secondaria del diritto, bensì primaria. In sintesi il rifiuto viene classificato in base ai seguenti criteri:
- Luogo di provenienza (da dove si origina)
- Pericolosità
I materiali di scarto generati in cantiere sono prevalentemente macerie di: calcestruzzo, laterizi, coppi, ceramiche. Alle volte, specie nel caso di interventi importanti, vengono considerati scarti anche componenti strutturali e accessori (legno e metalli), serramenti (incluso vetri e PVC), isolamenti termici, nonché terre e rocce da scavo. In realtà tutti questi materiali potenzialmente sono risorse, le quali puntualmente vengono sprecate, nel migliore dei casi come previsto dalla normativa, quando smaltite in discarica. Nei peggiori dei casi invece i materiali edili indifferenziati vengono abusivamente scaricati dove capita, per risparmiare gli oneri di conferimento in discarica.
Definizione di sottoprodotto
La nozione è introdotta dalla Direttiva 2008/98/CE, recepita con il D.Lgs. 205/2010 (G.U. 10/12/2010) che modifica e integra il D.Lgs 152/2006 in materia di rifiuti con il quarto correttivo, l’art. 184 – bis, il quale definisce pur mantenendo la definizione di rifiuto (art. 183):
“1. E’ un sottoprodotto e non un rifiuto ai sensi dell’art. 183, com. 1, let. a), qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfa tutte le seguenti condizioni:
a) la sostanza o l’oggetto è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto;
b) è certo che la sostanza o l’oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi;
c) la sostanza o l’oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale;
d) l’ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente, e non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana.
In sintesi, i rifiuti devono essere conferiti in apposita discarica mentre i sottoprodotti, non rientrando nella disciplina dei rifiuti, possono essere ammessi alla negoziazione. Si pone dunque il problema della certificazione dei sottoprodotti. La raccomandazione di usare una certa percentuale di materiale riciclato, suggerita da alcuni protocolli di valutazione della sostenibilità degli edifici, viene convenientemente disattesa in assenza di un’adeguata certificazione. In pratica e lecitamente, i progettisti non si fanno carico dei rischi discernenti dall’eventuale presenza di sostanze nocive contenute nei sottoprodotti, specie se la provenienza di quest’ultimi non è documentata in modo credibile, ma sia necessariamente verificabile solamente mediante test di laboratori autorevoli. Spesso i costi dei test non sono giustificati dallo scarso valore economico attribuibile ai sottoprodotti. Diverso, seppur simile, è il caso delle terre e rocce da scavo, le quali, secondo il D.Lgs. 152/2006, non rientrano nella disciplina dei rifiuti; tuttavia, per questa categoria sono previsti nuovi correttivi, speriamo a maggior tutela dell’ambiente.
CESSAZIONE DELLA QUALIFICA DI RIFIUTO
Il D.L. 205/2010 introduce un altro correttivo: l’articolo 184–ter, che riportiamo:
“1. Un rifiuto cessa di essere tale, quando è stato sottoposto a un’operazione di recupero –inclusi il riciclaggio e la preparazione per il riutilizzo– e soddisfi i criteri specifici, da adottare nel rispetto delle seguenti condizioni:
a) la sostanza o l’oggetto è comunemente utilizzato per scopi specifici;
b) esiste un mercato o una domanda per tale sostanza od oggetto;
c) la sostanza o l’oggetto soddisfa i requisiti tecnici per gli scopi specifici, rispetta la normativa e gli standard esistenti applicabili ai prodotti
d) l’utilizzo della sostanza o dell’oggetto non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o sulla salute umana.
2. L’operazione di recupero può consistere semplicemente nel controllare i rifiuti per verificare se soddisfano i criteri elaborati conformemente alle predette condizioni. Tali criteri includono, se necessario, valori limite per le sostanze inquinanti e tengono conto di tutti i possibili effetti negativi sull’ambiente della sostanza o dell’oggetto. Attualmente, gli Stati membri possono decidere, caso per caso, se un determinato rifiuto abbia cessato di essere tale tenendo conto della giurisprudenza applicabile.”
IL “DETENTORE” E IL “PRODUTTORE DI RIFIUTI EDILI
Le due definizioni non sono equivalenti, anche se spesso possono coincidere nel soggetto e nel luogo, la commistione dei due ruoli può indurre a confusione, quindi ad infrazioni. Il D.L. 205/2010 rivede i due seguenti soggetti del com.1 art. 183:
f) Produttore di rifiuti:“il soggetto la cui attività produce rifiuti (produttore iniziale) o chiunque effettui operazioni di pretrattamento, di miscelazione o altre operazioni che hanno mutato la natura o la composizione di detti rifiuti.” Nel caso del cantiere edile si tratta dunque di materiale che viene prodotto, da parte dell’impresa edile prestatrice d’opera, nel luogo coincidente con il domicilio del committente.
h) Detentore: “il produttore dei rifiuti, o la persona fisica o giuridica che ne è in possesso.” I soggetti responsabili della produzione di rifiuto possono essere di diversa natura anche se non tutti contribuiscono alla sua produzione. Fra questi si distingue la figura il committente del cantiere. ”
CHI E’ TENUTO A SMALTIRE LE MACERIE E COME?
Accade spesso che sul cantiere si succedano nel tempo imprese diverse, ognuna delle quali con il proprio contributo alla produzione di macerie o altre tipologie di rifiuti assimilabili agli urbani. A questo punto, sorgono i dubbi su il “chi paga” i costi del trasporto e dello smaltimento. La figura giuridica che si riscontra più spesso, verso il termine dei lavori, è quella del detentore di rifiuti il quale ha acquisito la direzione del cantiere con tutti gli annessi e i connessi, quindi l’impresa. Tuttavia, come si diceva all’inizio, è importante considerare l’esito di sentenze in materia ambientale come ad esempio la seguente:
Corte di Cassazione con Cass. Sez. III, sent. n. 4957 del 21 aprile 2000, Rigotti e altri, rv. 215943: “…Il produttore e detentore di rifiuti sono i soggetti penalmente responsabili dello smaltimento dei rifiuti. Pertanto, non è ammissibile il trasferimento, per via contrattuale, della propria posizione di garanzia ad altro soggetto egualmente obbligato per la stessa tutela. Il direttore dei lavori, in tema di smaltimento dei rifiuti, non assume posizioni di garanzia né ha doveri di controllo, giacché altri sono i suoi compiti.”
IL RESPONSABILE TECNICO DELLA GESTIONE AMBIENTALE
Regolano competenze e requisiti di questa figura professionale il D.M. 406/98 e la parte IV del D.Lgs. 152/06. Imprese ed aziende, in generale, a seconda del settore in cui operano, sono tenute a dotarsi di un responsabile tecnico (R.T.), in alcuni casi come consulente esterno, per la corretta gestione ambientale dei rifiuti prodotti. Nelle migliori delle ipotesi l’appaltatore iniziale, in qualità di Responsabile Tecnico, s’incarica della procedura di trasporto autorizzato dei rifiuti nel più vicino impianto di recupero inerti, sia questo fisso che mobile, oppure al conferimento in apposite discariche. E’ evidente il ruolo chiave del Responsabile Tecnico. che in futuro potrà avere nello sviluppo di una gestione più sostenibile dei rifiuti, proprio in virtù del suo potere decisionale istituzionalizzato.
LA DEFINIZIONE DI DISCARICA E IL CONFERIMENTO DEI MATERIALI
Abbiamo detto che in assenza di volontà di riutilizzare i materiali edili, provenienti dai cantieri, il conferimento in discarica degli stessi è obbligatorio come stabilito dal D.Lgs 36/2003.
Tuttavia è necessario un accertamento previo dei vari rifiuti per determinare la corretta categoria di discarica nella quale conferirli. Ai sensi dell’art. 4 i “rifiuti inerti” che devono essere conferiti nella discarica tipo “a” devono altresì contenere una concentrazione accettabile di sostanze inquinanti rilasciate nell’eluato (definita nel D.Lgs 152/2006) ed essere opportunamente selezionati durante le operazioni di C&D.
La disciplina sulle discariche stabilisce che il deposito dei rifiuti presso il produttore degli stessi, se superiore ai 12 mesi, si configura come una discarica e di conseguenza il luogo è soggetto alle autorizzazioni e alle procedure di valutazione ambientali specifiche. Ciò significa che, in termini di sanzioni applicabili, si fa riferimento al superamento dei limiti temporali (anche inferiori ai 12 mesi se si superano certi quantitativi). Sono invece esclusi da essere considerati discariche gli impianti dove i rifiuti sono scaricati al fine di essere preparati per il successivo trasporto in un impianto di recupero, trattamento o smaltimento, e lo stoccaggio degli stessi in attesa di recupero o trattamento per un periodo inferiore a tre anni come norma generale, o lo stoccaggio di rifiuti in attesa di smaltimento per un periodo inferiore a un anno.
Orbene, si pongono i seguenti problemi di: controllo e tracciabilità dei materiali, operazioni che dovevano essere regolate dal SISTRI. La sospensione di quest’ultimo, fino al prossimo giugno, la mancanza di chiarezza e di completezza della normativa fomentano una sorta di anarchia ambientale a detrimento del diritto universale di vivere in un ambiente sano e piacevole.
Si allega per approfondimenti un pdf con gli allegati del Dlgs. 152/2006