Istanbul. Spazio pubblico come opportunità di giustizia urbana

istanbul-protesta-b

La protesta turca, iniziata con un sit–in di poco più di cinquanta persone a seguito dell’approvazione del progetto di riqualificazione urbana che prevede, al posto dell’attuale Parco Gezi e dei suoi 600 alberi, un centro commerciale di “nuova generazione”, a seguito delle modalità di intervento violente delle squadre antisommossa è arrivata a raggiungere una risonanza internazionale ampliando il motivo iniziale al tema più generale delle politiche adottate da Recep Tayyip Erdoğan. In pochi giorni la contestazione, che ha il suo simbolo in Piazza Taksim, è riuscita ad assumere forme nuove ed originali, trasmettendo con consapevolezza civile e sociale la necessità di condivisione, di partecipazione, di avere voce in capitolo nelle scelte di trasformazione dei luoghi, dei propri spazi di vita, il tutto manifestato attraverso la volontà di difendere la sopravvivenza di un parco, rappresentazione del diritto base allo spazio pubblico.

Istanbul: residenze sostenibili nel quartiere Galata

Ad Istanbul l’interesse per un parco e, in generale, per il tessuto pubblico della megalopoli, ha generato una vera e forte mobilitazione da parte dei cittadini, prova del grande potere che questi spazi hanno anche nell’era delle defisicizzanti connessioni virtuali; “il potere dei corpi che si incontrano ha dato vita ad un momento di vera democrazia”(articolo di Michael Kimmelman” nel cuore di Istanbul”, pubblicato sul New York Times)

La piazza è tornata agorà: in essa la gente si è espressa liberamente, incontrandosi e lottando insieme per la costruzione di una democrazia degna di tale nome, manifestando non solo per la politica ma in primis per lo spazio pubblico, nella consapevolezza del valore che quest’ultimo ha a livello identitario, come opportunità di libertà.

ISTANBUL: DA CITTÀ AD EKUMENOPOLIS

In realtà il caos di Parco Gezi è stata la tipica “goccia che fa traboccare il vaso”, l’ultima proposta di una lunga politica di demolizioni abbracciata da Erdoğan ma che ha radici molto più profonde.
Il processo di trasformazione di Istanbul da città ad Ekumenopolis(termine nato in Grecia per indicare l’unione di megalopoli fino a diventare onnipresenti, senza limiti, senza fine) prende il via intorno agli anni Sessanta, quando la riforma agraria e la conseguente meccanizzazione dell’agricoltura, portarono molti contadini a perdere il lavoro; gli stessi in breve tempo si trasformarono in potenziale manodopera a basso costo per le industrie che si stavano diffondendo ad Istanbul. Il governo, non potendo fornire loro degli alloggi, sancì un tacito accordo tra classi sui Gecekondu, i quartieri abusivi turchi che continuarono ad ampliarsi a dismisura in seguito alla costruzione dei ponti sul Bosforo.

Con l’affermarsi, negli anni Ottanta, del modello “neoliberista” inizia la vera e propria commercializzazione della città: fioriscono nuovi Gecekondu e nuovi quartieri commerciali, la città viene trasformata nel paradiso del consumatore mediante il decentramento dell’attività produttiva, in nome di nuovi quartieri per ricchi vengono attuate importanti deforestazioni.

In breve, nel tentativo di diventare una città globale, ma non trovando un’armonia fra valenze culturali e artistiche ed interessi commerciali e finanziari, intraprendendo la strada dell’avidità basata sulla speculazione immobiliare, sullo shopping frenetico nei centri commerciali e sulla cementificazione eccessiva, standardizzata e omologata, la città finisce per diventare un’Ekumenopolis. Materializzazione di tale speculazione in atto sugli spazi pubblici (che in realtà dovrebbero essere considerati beni comuni), in nome della corsa al palcoscenico della globalità, sono i vari progetti di “riqualificazione” urbana previsti e attuati ad Istanbul.

Un valido esempio è rappresentato dal quartiere Ayazma che, da luogo invisibile in quanto lontano da infrastrutture e servizi è “improvvisamente”, subito dopo la previsione di costruzione dello stadio olimpico, diventato prezioso. Ciò ha comportato la demolizione del Gecekondu, per la costruzione di un quartiere residenziale di lusso ma, ancor di più, la fine dello “stato sociale”, dal momento che le amministrazioni, assumendo una logica imprenditoriale, hanno approfittato dei più poveri costretti a migrare altrove, senza alloggio e senza la possibilità di pagare le alte rate delle case sostitutive assegnategli, residence di “massa” camuffati sotto il nome di “social housing” che, perpetuando la separazione tra abitazione, lavoro, tempo libero, consumo, non faranno altro che rendere durevole il problema “baraccopoli” che non è solo architettonico, bensì sociale.

Sono più di cinquanta ad Istanbul i quartieri con lo stesso destino di Ayazma e tale fenomeno, precedentemente a piazza Taksim, ma provocando meno risonanza a livello internazionale, aveva portato a numerose manifestazioni da parte dei cittadini per “riappropriarsi” della città, contro le demolizioni in nome della rigenerazione urbana promuovendo, al contrario, l’adeguamento dell’esistente per evitare di relegare i poveri in aree lontane, per una vita umana, una città umana.

GEZI PARK E PIAZZA TAKSIM OGGI E DOMANI

Se ad oggi il Gezi park appare come l’ultimo “resto” di polmone rimasto alla città, nella zona centrale, per respirare, il progetto di riqualificazione urbana prevede ben altro: l’intera area sarà trasformata in una grande “oasi” pedonale, tagliata fuori dal resto della città, cementificata per facilitare la costruzione di un grande centro commerciale, decisione presa in tempi record e senza alcun tipo di forma partecipativa.

istanbul-protesta-c

Come si può, proprio nel momento della presa di coscienza del fallimento delle grandi ideologie, del razionalismo, del “fattore inerziale” ossia della rottura del rapporto causa–effetto che fa sì che il futuro di una città non sia più legato al passato ma esito delle scelte di chi la vive e la governa, non riconoscere il ruolo preponderante della domanda dei cittadini? È ormai un dato di fatto la necessità di una partecipazione che sia decision–oriented : il cittadino, in quanto esperto della propria quotidianità, deve realmente avere voce in capitolo nelle scelte riguardanti gli spazi in cui vive.

Ad ogni modo è importante evidenziare come la questione dello spazio pubblico e della città più in generale non è semplicemente tecnica, architettonica o urbanistica ma ancor prima culturale: convivenza o isolamento, giustizia sociale o disuguaglianza, uguaglianza civica o anonimato, sono condizioni di esistenza quotidiana che rendono ancor più pericoloso lasciare lo sviluppo urbano in balia dell’immediato tornaconto economico.

È per tale ragione che la progettazione dello spazio pubblico deve essere interpretata come opportunità per la giustizia urbana, rivendicando la qualità e l’accessibilità per tutti, nonché una sfida globale per la politica urbana sia a livello urbanistico (lo spazio pubblico non è un residuo del costruito ma uno spazio che organizza funzionalmente un territorio) che politico (in quanto spazio dell’espressione creativa, della vita comunitaria, dell’incontro e dello scambio quotidiano), che culturale (deve trasmettere valori, etica, legare centralità); una rinnovazione culturale e politica nell’ambito del governo locale per i diritti cittadini–urbani al luogo come continuare a vivere dove si hanno le proprie relazioni sociali, proteggere le comunità più vulnerabili, qualità, identità, mobilità e accessibilità, conversione della città “marginale–illegale” in “città dei cittadini”.

Giulia Radaelli

Giulia Radaelli Architetto

Innamorata dello spazio nel senso più lato del termine coniuga questa passione con la professione di architetto. Nel tempo libero si diletta con la fotografia, per cogliere l’inusuale nella quotidianità trascurata dall’occhio distratto, con viaggi e immergendosi in romanzi capaci di condurre in realtà lontane.