- scritto da Alberto Grieco
- categoria Curiosità ecosostenibili
La Teoria dei Beni Comuni
Beni comuni e strategici come l’acqua, l’energia o l’ambiente hanno da sempre stimolato l’interesse di molteplici studiosi afferenti alle più diverse scienze, ruotando tutti più o meno attorno allo stesso problema: la loro corretta gestione. Merita molta attenzione in tal senso il serio lavoro di ricerca e studio dell’economista Elinor Ostrom, che prende il nome di “Teoria dei Beni Comuni” (valsole tra l’altro il Nobel per l’Economia nel 2009).
Tale teoria rappresenta il frutto di un lungo lavoro teorico ed empirico sulla gestione economicamente sostenibile dei beni comuni.In “Governing the commons”, infatti, la dottoressa Ostrom affronta il problema fondamentale di come un gruppo di soggetti (definiti principals), interdipendenti tra di loro, possano auto–organizzarsi e autogovernarsi al fine di ottenere benefici collettivi di lungo periodo, superando la tentazione di sfruttare le risorse in modo opportunistico. Questo modello proposto costituisce l’ultimo tassello di quello che è ormai un dibattito molto sentito nella nostra società. Ultimamente infatti, specialmente nel nostro Paese, abbiamo assistito al costituirsi di un cospicuo fronte di resistenza intellettuale e popolare intorno alla difesa dei beni comuni, che si è battuto nella totale ostilità mediatica e politica (almeno fino al Referendum del 12–13 giugno 2011, dopo il quale si sono susseguiti goffi e tradivi tentativi di lifting ideologico, trasformando tutti in vincitori e strenui paladini dell’interesse comune, se non altro a parole).
L’assalto ai beni comuni, è bene ricordarlo, ha origini lontane e inizia ufficialmente a metà degli anni novanta, trovando il suo apice nell’art. 23–bis del (famigerato) Decreto Ronchi, ovvero quello abrogato dal testé citato quesito referendario. Tuttavia, malgrado i bassi tentativi della classe politica di sabotare, anche a posteriori, gli esiti di questa legittima consultazione popolare ignorando appena 27 milioni di persone; la cosiddetta società civile (come se ne esistesse una incivile) rimane l’unico argine in grado di opporsi alla furia privatizzatrice. Ma non basta. Ciò che continua ad impedire una gestione davvero efficace dell’acqua, dell’energia, del territorio e del patrimonio culturale ha origine nell’annosa contrapposizione tra bene pubblico e bene privato, che finora non ha fatto altro che generare problemi anziché soluzioni (in Italia si disperde quasi il 60% dell’acqua che “viaggia” negli acquedotti, con punte in alcune zone dell’80%). In una prospettiva di concreto sviluppo sostenibile questa opposizione pubblico/privato è da ritenersi ampiamente obsoleta e superata, e per eludere questo bivio si può provare ad andare in un’altra direzione, certi che esista una terza via, un tertium genus, quello per l’appunto dei Beni Comuni (Common Pool Resources). Non è infatti un caso se nella prossima Conferenza internazionale sulla decrescita che si terrà a Venezia dal 19 al 23 settembre (programma definitivo su: www.venezia2012.it) tra i tanti assi tematici scelti svetta anche quello dei beni comuni.
La teoria dei beni comuni si basa infatti sul concetto che alcune risorse sono essenziali alla vita e non devono essere assoggettate allo sfruttamento del mercato; questa idea – per certi aspetti rivoluzionaria, perché intacca l’assolutezza della proprietà privata e supera il concetto standard di “pubblico” – prospetta un modello di società con maggiori garanzie, tanto per l’ambiente quanto per i cittadini, grazie all’intensa partecipazione attiva alle scelte essenziali della comunità. Non un’altra forma di proprietà, dunque, ma l’ opposto della proprietà: affermare che l’acqua è un bene comune ad esempio, non ha affatto il carattere semplicistico di ribadire che “la pioggia è di tutti”, ma quello ben più concreto di stabilire che ogni cittadino ha diritto a che la disponibilità di quell’elemento gli venga garantita nel modo più efficiente. Dunque nessuno meglio dei cittadini stessi dovrebbe poter contribuire attivamente alla sua gestione, come dimostrato dall’esperienza del premio Nobel Ostrom. Il paradigma prospettato nella Teoria dei Beni Comuni è dunque il seguente: da privato a pubblico, da pubblico a civico.
Nel modello elaborato dalla Ostrom infatti, le istituzioni devono svolgere essenzialmente il compito di supportare le forme concertative o cooperative di gestione dei beni comuni, non semplicemente sostituendosi ai cittadini mediante l’applicazione del principio della “rappresentanza politica”, il quale troppo spesso si risolve in un’usurpazione surrettizia, confermando l’intuizione che già Alexis de Tocqueville ebbe nel XIX secolo dopo la visione diretta della società americana (e che riassunse nel suo famoso La democrazia in America).
Da questi aspetti si evince come i beni comuni siano molto più che semplici risorse da amministrare con la dovuta accortezza. Sono piuttosto un patrimonio vero e proprio da salvaguardare e da sottrarre il più possibile alla logica distruttiva del breve periodo, proiettando la loro tutela verso l’orizzonte più lontano, abitato dalle generazioni future: le vere ed uniche proprietarie dei beni comuni.
Per approfondimenti consigliamo:
Elinor Ostrom, “Governing the Commons: The Evolution of Institutions for Collective Action (Political Economy of Institutions and Decisions)”, Cambridge University Press, 1990
Paolo Cacciari, “La Società Dei Beni Comuni”, Ediesse, 2011.
Ugo Mattei, “Beni Comuni, Un Manifesto”, Laterza, 2011.
http://www.acquabenecomune.org