Al Caffè dell’Architetto. Incontriamo Arabella Rocca

L'intervista ad Arabella Rocca per la rubrica Al caffè dell'architetto

L’Architetto Arabella Rocca, dopo 10 anni di collaborazioni con grandi studi internazionali, nel 2015 apre il suo studio. Nel suo ufficio sul Lungotevere, con il suo team, si occupa di interior design ed architettura, progettando residenze private, negozi e spazi pubblici sempre con una particolare attenzione alla sostenibilità di ogni intervento.

In copertina:  Arabella risponde all'ultima domanda dell'intervista, "Meglio un fico d’india di una vite americana".

Lenny. Beviamo un caffè? Come lo prendi? Macchiato, americano, ristretto, …? 
Arabella. Decaffeinato macchiato.

L. Ci racconti la tua giornata tipo?
A. Accompagno a scuola le mie due bimbe e vado in ufficio o in cantiere, nell’arco della giornata giro più cantieri, a volte per una ricognizione veloce, a volte passando ore nello stesso, incontro fornitori ed artigiani, accompagno i clienti negli showroom e cerco sempre di fare almeno una o due riunioni al giorno con il mio team per confrontarci su temi progettuali e logistica dei progetti in corso.

L. Cosa fai dopo il lavoro? 
A. Solitamente scappo a casa dalla mia famiglia, ogni tanto però mi ritaglio spazi per gli amici, o per andare al cinema, a concerti, a vedere posti nuovi. Ho la fortuna di poter gestire il mio tempo come voglio anche durante il giorno, purtroppo è sempre poco, ma tra un sopralluogo, un cantiere e una riunione a volte riesco ad inserire un pranzo con un’amica, una mostra o una lezione di pilates.

L. Qual è la parte che ti piace meno del tuo lavoro? 
A. Quando incontro clienti che non rispettano il ruolo del professionista, credo fermamente che il rispetto dei ruoli da entrambe le parti sia fondamentale per la riuscita dell’intero processo progettuale. 

L. E quale quella che ti piace di più?
A. Amo moltissimo il mio lavoro in ogni sua sfaccettatura, dalla ricerca alla realizzazione ma sicuramente i momenti più emozionanti sono l’inizio e la fine di ogni progetto, la fase iniziale perché è quella più creativa e quella finale perché si visualizza finalmente l’insieme di tutto il percorso. In chiusura di ogni cantiere quando si scoprono i pavimenti, si colorano le pareti, si monta la falegnameria, le lampade, le carte da parati e arrivano gli arredi si chiude il cerchio di tutto il percorso e finalmente il cliente visualizza e tocca con mano quello che fin dall’inizio è stato pensato per loro. Noi lavoriamo tantissimo con rendering e fotosimulazioni ma vedere il cliente soddisfatto e stupito quando si “spacchetta” il cantiere e si montano arredi ed elementi decorativi è sicuramente il momento più bello.  

L. Ci racconti da dove è nata la tua passione per l’architettura?
A. È difficile raccontarlo perché non c’è stato un momento preciso, mia madre è architetto ma ha smesso di praticare prima della mia nascita quindi ho sicuramente assorbito la sua formazione ma non l’ho vissuta praticamente, ho vissuto molto di più il lavoro di mio padre, ingegnere nucleare dedito alle fonti rinnovabili. Ho deciso di iscrivermi alla facoltà di architettura il giorno prima della scadenza, prima volevo fare lettere con indirizzo storia dell’arte. Poi durante la facoltà, soprattutto negli ultimi anni è nata la vera passione, ho capito che l’architettura mi avrebbe dato la possibilità di mettere insieme tutto ciò che mi interessava, l’arte, la fotografia, la moda, l’estetica, la ricerca del bello e dell’armonia, lo studio dei colori e delle forme e da allora è stato un crescendo.

L. Potendo scegliere un architetto di qualunque epoca, con chi ti piacerebbe lavorare?
A. È una scelta difficilissima, forse Le Corbusier, architetto, urbanista, designer, pittore, uno degli architetti più poliedrici e geniali di tutti i tempi anche se sono tantissimi gli architetti del passato con i quali mi piacerebbe lavorare, penso ad Alvar Aalto e Mies Van Der Rohe ma la lista è lunga. Ho avuto la fortuna con il mio precedente studio di conoscere di persona e collaborare con Renzo Piano, anche lui per me è un mostro sacro ed è stato molto emozionante conoscerlo e vederlo lavorare nel suo meraviglioso studio a Genova.

L. Hai progettato Villa a Casal Palocco a Roma. Partendo da un immobile preesistente, tramite una mirata riprogettazione funzionale e impiantistica sei riuscita a creare una casa passiva, fatto ancora molto raro in Italia, specialmente in un contesto come quello di Roma. Considerando l’intero iter progettuale, dal rapporto progettista-cliente, passando per le problematiche normative, fino al difficile tema dei costi, quali sono stati i punti chiave che ti hanno permesso di raggiungere questo risultato? 
A. Per me la Villa a Casal Palocco è stato un progetto molto importante perché si sente parlare tanto di efficientamento energetico ma in realtà a Roma una casa “passiva” è un risultato molto difficile da ottenere! Se ci fossero degli incentivi economici maggiori dell’attuale sgravio fiscale e delle facilitazioni amministrative sarebbe molto più facile lavorare a scala più ampia. Nel caso di Casal Palocco, sicuramente il punto chiave sono stati dei clienti illuminati che hanno deciso di investire oggi per poter risparmiare domani sia economicamente che in termini ambientali. Abbiamo analizzato insieme la sostenibilità generale dell’intervento e le varie possibilità progettuali e abbiamo optato per una soluzione completa che permettesse di rientrare dell’investimento in pochi anni e che offrisse il miglior comfort abitativo a tutti gli abitanti della casa: i pavimenti radianti (caldo-freddo) alimentati da una pompa di calore che a sua volta sfrutta l’energia prodotta dai pannelli fotovoltaici installati sul tetto, le luci a led sia in interno che in esterno, scaldasalviette elettrici e piastre ad induzione, intonaci termo isolanti e serramenti a taglio termico con vetri basso emissivi, ogni elemento è stato studiato in vista di un obiettivo unico di ottimizzazione energetica.

La villa a Casal Palocco dell'architetto Arabella Rocca

L. Tra i tuoi progetti in corso ci sono la Palazzina Aprilia, un edificio residenziale su quattro livelli completamente realizzato con struttura lignea e la Cantina Serragiumenta in Calabria dove vetro e metallo si inseriscono in un contesto fatto di legno e laterizio creando un dialogo che rinnova e rispetta il contesto. Inoltre parte della Cantina si sviluppa sottoterra, una scelta formale e funzionale molto interessante. Due interventi completamente differenti ma ancora una volta legati da un filo conduttore, quello della sostenibilità. Puoi parlarcene?
A. Nel caso della Palazzina Aprilia la struttura lignea era alla base del progetto iniziale, ho studiato nel dettaglio questo tipo di costruzione e ora stiamo verificando con i proprietari come rendere ancora più sostenibile l’intero intervento, stiamo valutando varie tipologie impiantistiche tutte tese ad un alto efficientamento energetico, sicuramente ci sarà un fotovoltaico integrato in copertura e un sistema di accumulo centralizzato per l’intero condominio, inoltre stiamo inserendo delle pareti verdi ventilate per un ulteriore tocco “green” all’intervento. La cantina Serragiumenta invece è un intervento che si inserisce all’interno di un’area e di un’azienda già molto coinvolta nell’utilizzo di fonti rinnovabili e nell’ auto produzione di energia, l’idea di interrarne una grande porzione ha due motivi, il primo funzionale per sfruttare il naturale mantenimento delle temperature, la massa del terreno è infatti caratterizzata da una bassa conduzione termica e da un’elevata capacità di conservazione che consente di ridurre di molto o di eliminare i consumi degli impianti di condizionamento; il secondo è quello architettonico, abbiamo deciso di rispettare l’ambiente circostante intervenendo con piccoli innesti contemporanei sui manufatti esistenti, lasciando dialogare paesaggio ed architettura senza che uno sovrasti l’altro.

 Il progetto della Palazzina Aprilia di Arabella Rocca Il progetto della Palazzina Aprilia di Arabella Rocca

 la Cantina Serragiumenta dell'architetto Arabella Rocca la Cantina Serragiumenta dell'architetto Arabella Rocca

L. Il percorso che ti ha portato ad aprire nel 2015 il tuo studio Arabella Rocca Design è costellato di collaborazioni ed esperienze internazionali. Il tuo approccio all’architettura pare voglia raccontare il tuo passato, il recupero dell’esistente, il dialogo con il paesaggio, le energie alternative, il legno, le strutture ipogee e molto altro. C’è qualcosa in particolare che ha influito sulle tue scelte progettuali?
A. Ogni mio lavoro rappresenta una parte di quello che sono, credo fermamente che tutto il nostro background venga fuori più o meno prepotentemente in ogni espressione artistica o architettonica. Ho vissuto in Spagna e in Portogallo oltre che in Italia, ho sempre viaggiato tantissimo fin da piccola, nasco già come un mix culturale interno al nostro paese perché ho una madre piemontese e un padre calabrese, sono sempre stata attratta dalle altre culture e ogni viaggio ha lasciato qualcosa di diverso nella mia formazione. Ho lavorato per dieci anni al fianco di una coppia di architetti italo-giapponese e nell’anno passato a Barcellona ho coordinato un master insieme ad un bravissimo architetto catalano, e ho avuto la possibilità di conoscere e collaborare con architetti che arrivavano da ogni parte del mondo.Sono un’appassionata di fotografia e in generale un’amante di ogni forma artistica e penso che tutto ciò che vediamo e che amiamo ci influenzi e contribuisca fortemente alla nostra progettualità, penso ai colori delle fotografie di Nan Goldin e dei quadri di Rotchko, le sculture di Richard Serra, le tele di Fontana e Burri, i quadri di Afro, solo per citarne alcune.Credo che nei miei progetti si rilegga uno stile essenziale e minimale scaldato da presenze più colorate e morbide, frutto di tutte queste esperienze.

L. C’è stato un libro che ti ha influenzato o accompagnato nella professione?
A. Leggo moltissimo ma sinceramente non riesco ad individuare un libro specifico che mi abbia influenzato nella professione, tra i tanti però mi vengono in mente, Le città invisibili di Calvino, I pilastri della terra di Ken Follet, Delirious New York di Rem Koolhaas e i Non luoghi di Marc Augé.

L. Adesso facciamo un gioco. Ti dirò cinque aggettivi e ti chiedo di rispondermi con ciò che ti viene in mente in relazione all’architettura.

L. Collettivo 
A. L’Unité d’Habitation di Le Corbusier

L. Egoista 
A. Il Centre Pompidou a Parigi

L. Aperto 
A. Le architetture di vetro di Kazuyo Sejima

L. Sostenibile 
A. La California Academy of Science di Renzo Piano

L. Chiassoso 
A. Il mercato di Santa Caterina di Miralles-Tagliabue

L. Ora stesso gioco ma con 5 colori.

L. Rosso 
A. L’ampliamento del Reina Sofia a Madrid di Jean Nouvel

L. Marrone 
A. Le sculture in corten di Richard Serra

L. Azzurro
A. Gli azulejos di Lisbona

L. Bianco 
A. La casa per anziani ad Alcacer do Sal di Aires Mateus

L. Verde 
A. Il bosco verticale di Boeri

L. (Mi piace chiudere questi caffè sempre con un’immagine un po’ ironica, un’espressione giocosa di noi stessi). F.L. Wright disse: “un medico può sempre seppellire i suoi errori, ma un architetto può soltanto consigliare ai suoi clienti di piantare una vite americana”. Che faccia faresti se scoprissi che uno o più dei tuoi clienti hanno piantato una vite americana?

(foto di copertina). 

Lenny Schiaretti

Lenny Schiaretti Architetto

Appeso ad una scala poco stabile, da tempo sta cercando il suo libro tra i polverosi scaffali di una biblioteca, ancora tutta da scoprire. Si fa aiutare dall'architettura, dal basso elettrico, dai viaggi, qualche buon libro e frequenti tuffi in piscina. Durante questa ricerca, insieme ad un amico, ha attraversato la Mongolia in bicicletta e da quei deserti nella sua mente sono cambiate tante cose...