Flessibilità in architettura. Considerazioni

Le leggi di pianificazione del territorio dipendono sempre più dalla rendita che deriva dall'intervento edilizio. Lo sviluppo delle aree della città, le tipologie e le strutture costruite seguono leggi di mercato che mirano, ormai, solo al profitto. Inoltre, a complicare notevolmente la gestione dei suoli, ci sono spesso cambiamenti del mercato o degli obiettivi del progetto che vanificano quanto costruito già dopo pochi anni la sua realizzazione. Ecco che è quindi facile vedere nuovi cantieri per cambiare destinazione d’uso agli edifici o per attuare ampliamenti che soddisfino i nuovi bisogni. Tutto questo comporta ulteriori studi, progettazione, demolizione, smaltimento, costruzione, collaudo…

Case flessibili ed economiche: i prototipi di Avi Friedman

L’abitare e l’uso del suolo

Questa è solamente una veloce lettura del complicato argomento della gestione delle aree urbane, una nota di riflessione, senza la pretesa di spiegare in pieno il sistema che vige dietro al governo delle nostre città; la questione necessiterebbe certamente di un approfondimento. Proviamo comunque ad ipotizzare uno scenario differente.

Notevoli cambiamenti nel tempo fanno diventare parti di città come organismi architettonici in crisi, obsoleti, abbandonati e, soprattutto, incapaci di modificarsi in armonia con il loro intorno.

Talvolta si rendono necessari notevoli ampliamenti o, viceversa, forti riduzioni dell'area edificata, ma tutto questo si scontra con la rigidità propria dell'attuale modo di fare architettura”, un modello che non accetta facilmente modifiche ma all’opposto è rigido ed energivoro.
Tutto questo fa si che, di solito, non ci siano cambiamenti e l’architettura costruita rimanga per decenni, senza rispondere più alle necessità delle persone e della città, fino a diventare un qualcosa di tollerato dai cittadini, non più desiderato. Gli utenti devono adeguarsi all'architettura, dal momento che il processo opposto non è previsto e quindi possibile. Un “modus vivendi” la città forzato e scorretto essendo questa pensata e costruita per e da i cittadini, non viceversa. Non è più sufficiente, o forse non lo è mai stata, la scelta ponderata del tipo di intervento edilizio che verrà adottato, le innovazioni tecnologiche e i cambiamenti sociali (quindi i differenti stili di vita dei cittadini) impongono che l'architettura sia pensata e fatta con presupposti differenti. L'edificio deve essere pronto ad accogliere ciò che accadrà nel futuro del contesto sociale, culturale e tecnologico nel quale è inserito. Una nuova architettura deve quindi fare della flessibilità e reversibilità il proprio punto di forza. Dobbiamo pensare e progettare organismi architettonici che prevedano operazioni di addizione e sottrazione, senza la necessità di occupare nuove aree di suolo o di impiegare processi ad alta entropia, mantenendo la reversibilità dell'intervento, così da raggiungere la massima flessibilità.

John Habraken e l’open building

Alcuni interessanti spunti sulla questione possono essere tratti dal network internazionale Open Building, ideato dall'architetto olandese John Habraken.

Habraken nasce in Indonesia, viaggia tanto e comincia ad indagare la residenza olandese ed il suo “innaturale” rapporto con l’uomo. Per Heineken disegna la bottiglia WOBO (nota di approfondimento sulla storia della WOBO in calce all'articolo) a sezione quadrata: pensata come alternativa al mattone portava in sé il concetto di riciclo creativo. Nel 1961 pubblica in Olanda il libro “De dragen en de mensen”, in cui espone l'innovativa visione dell’utente come attivo protagonista del processo costruttivo dell’abitazione e della conseguente organizzazione dei processi progettuali, in un contesto storico in cui nell'architettura pervadeva un senso di potere, di voler controllare, dall’alto verso il basso. Nel ’65 Habraken fonda insieme ad altri architetti olandesi il SAR (Stichting Architecten Reserch), fondazione di ricerca architettonica che lavorando sulla scia delle tesi partecipative del testo di Habraken, sviluppa la teoria del support ed infill: la struttura di support rappresenta una responsabilità comune nella produzione di alloggi di massa, mentre l'acronimo infill definisce il controllo individuale dell’alloggio. Il support deve essere progettato da tecnici, a cui spetta un il compito e la responsabilità di definire la distribuzione degli spazi in funzione agli impianti e alle tecnologie. Gli utenti potranno modificare la propria unità abitativa secondo le diverse esigenze. La struttura di support, indipendente dall’abitazione, avrà una vita molto più lunga rispetto a ciò che viene assemblato al suo interno perché statico rispetto alla continua evoluzione delle unità abitative. Quest’idea di Open Building può essere vista in funzione di un’organizzazione urbana della città, in termini cioè di pianificazione urbanistica.

Architettura “con-temporanea”?

Il nodo concettuale del lavoro di Open Building potrebbe riassumersi in una parola, flessibilità, che nasce dalla volontà di attuare un cambiamento.

Oggi progettare è sovente un gesto fermo al presente, se non addirittura ancorato al passato, senza volgere lo sguardo in avanti, a ciò che potrebbe accadere negli anni successivi all'edificazione, senza domandarsi se il progetto possa rinnovarsi nella forma, nella funzione e nel suo significato urbano. Pensare all'architettura come un qualcosa di rigido e fisso nel tempo è chiaro che non funzioni più, non sia adeguato allo sviluppo tecnologico e socio-culturale ma anzi si rifletta negativamente sul paesaggio, sul tessuto urbano e sui cittadini.

Andrebbero progettati frammenti di tessuto urbano non rigidi, offrendo alle aree le potenzialità per acquisire un indubbio valore urbano, grazie a parti di esse modificabili nel tempo e immaginabili anche removibili, quando necessario. Tutto questo nell'ambito di proposte di riuso dei luoghi di progetto fornendo un valore aggiunto alle parti della città, mostrandone potenzialità spesso inespresse o soffocate dalla rigidità delle architetture che vi sono contenute.

Così facendo la città diventerebbe un organismo sviluppabile e pronto a ricevere gli inevitabili “upgrades” di cui avremo sempre bisogno.

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 Foto di Lenny Schiaretti Foto di Lenny Schiaretti

Il testo trae origine da un lavoro di ricerca sviluppato da B.M.Rulli, F.Pizzorusso, L.V.Schiaretti

La WOBO di John Habraken per Heineken, 1960

Nel 1957 Freddy Heineken ha un’idea rivoluzionaria mentre passeggia per le spiagge di Curaçao, nelle Antille: costruire case di bottiglie per risolvere nello stesso tempo il problema dei rifiuti e quello dell’alloggio sociale. Nelle spiagge nota che giacciono abbandonate molte bottiglie di birra, importate dall’Olanda e non rispedite in fabbrica a causa dell’elevato costo di trasporto. Inoltre gli antillani vivono in fatiscenti baracche, disponendo di scarsi materiali da costruzione, da qui l’idea di utilizzare i “vuoti” di bottiglia per risolvere il problema dell’alloggio. Heineken, tornato in Olanda, trova l’architetto che può dare forma al suo progetto: John Habraken. Il prototipo di mattone-bottiglia venne chiamato WOBO (world bottle), ha un collo molto lungo ed è destinato a impilarsi in verticale, ma non piace ai responsabili del marketing perché assomiglia a una bottiglia di vino, non sembra abbastanza virile.

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Scartata la prima idea, Habraken progetta un secondo prototipo, rettangolare e tozzo, con un collo corto e grosso. La sezione quadrata è molto meno resistente a pressione e obbliga all’uso di un vetro più spesso. La WOBO è pensata per essere collocata in fila, con i colli a direzioni alternate per ogni fila.
Come materiali di unione vengono usati malta e additivi di silicone, Habraken disegna ai lati delle bottiglie delle piccole protuberanze tondeggianti per migliorarne l’aderenza. Realizzate 60.000 bottiglie di prova viene costruito nel paese di Noordwijk un capanno molto semplice e simile a quello che avrebbero potuto costruirsi gli antillani con le bottiglie di scarto. Nonostante il prototipo funzioni bene, l’idea viene archiviata perché si teme che la world bottle possa rovinare l’immagine di Heineken, che a quel tempo, soprattutto negli Stati Uniti, rappresenta un prodotto esclusivo che rischia così di venir associato a poveri e rifiuti.

Lenny Schiaretti

Lenny Schiaretti Architetto

Appeso ad una scala poco stabile, da tempo sta cercando il suo libro tra i polverosi scaffali di una biblioteca, ancora tutta da scoprire. Si fa aiutare dall'architettura, dal basso elettrico, dai viaggi, qualche buon libro e frequenti tuffi in piscina. Durante questa ricerca, insieme ad un amico, ha attraversato la Mongolia in bicicletta e da quei deserti nella sua mente sono cambiate tante cose...