- scritto da Mario Rosato
- categoria Energie rinnovabili
Riscaldamento domestico a biomassa, fra vantaggi e disinformazione
L’inverno non allenta la sua morsa, malgrado la primavera sia già inoltrata, e gli elevati costi di gas e gasolio spingono le famiglie a cercare alternative più convenienti per il riscaldamento domestico. Una di queste è la biomassa, di cui vogliamo sondare tutti i vantaggi e gli svantaggi celati dalla disinformazione. Tradizionalmente l’Italia è uno dei principali utilizzatori di legna fra i paesi industrializzati. Le statistiche della FAO posizionano il nostro Paese tra i principali importatori, e consumatori di circa 20% della produzione mondiale. Chiederci se il riscaldamento a biomassa sia davvero sostenibile è certamente lecito.
Foto in alto: L’impianto di teleriscaldamento a biomassa con tecnologia di pirogasificazione di Sauris, fonte Messaggero Veneto.
La risposta però non è semplice perchè dipende da svariati fattori. Il primo è la cosiddetta “lunghezza di filiera”.
È chiaro che importare la biomassa da Paesi lontani (filiera lunga) non è a impatto zero, ovvero le emissioni non sono “neutre” e l’effetto disboscamento viene semplicemente spostato dall’Italia all’Estero.
Il DM del 18/12/2008 stabilì che per poter accedere agli incentivi per la produzione di energia da biomasse, queste devono provenire da “filiera corta”,cioè entro un raggio di 70 km dall’impianto, un concetto utile come linea guida per valutare la sostenibilità del riscaldamento domestico all’atto di procurarsi i fornitori.
Il secondo fattore è il tipo di biomassa da utilizzare: la legna in ciocchi è termodinamicamente la più interessante perché ha un EROIE (Energy Return on Invested Energy) – l’energia ottenuta per unità di energia utilizzata nella sua produzione– di oltre il 1000 % nel caso della filiera corta.
Gli svantaggi principali della legna sono i seguenti: la combustione dei ciocchi richiede un elevato eccesso d’aria, il quale comporta l’abbassamento della temperatura di fiamma e minore rendimento di combustione. Inoltre la formazione di polveri sottili è inevitabile quando si brucia legna di grande pezzatura.
Spesso ci si trova a discutere con “esperti di paese”, –a volte anche professionisti con tanto di laurea e addirittura svariate associazioni ecologiste– i quali consigliano l’utilizzo delle stufe di tipo tirolese con la seguente spiegazione “scientifica”: «la legna brucia lentamente, quindi rende di più».
Va detto che il principio della combustione delle stufe di tipo tradizionale si basa proprio nel mantenere un certo difetto d’aria, per cui i fumi sono più inquinanti in quanto contengono maggiore concentrazione di CO (monossido di carbonio) e polveri. Complessivamente le stufe tirolesi rendono una frazione inferiore del potere calorifico della legna, proprio per non consentire una combustione completa, anche se il loro rendimento termico complessivo può risultare leggermente superiore a quello di un caminetto a focolare aperto.
Le stufe e caldaie a pellet invece consentono efficienze di combustione maggiori e miglior controllo della qualità dei fumi in uscita. Come svantaggi segnaliamo che spesso i pellet non provengono da “filiera corta” (i principali produttori si trovano nei Paesi dell’Est e nel Centroeuropa) e che l’ EROIE è basso: in alcuni casi scende sotto il 200% (comparabile a quello del barile di petrolio prodotto nell’attuale contesto mondiale).
Va sottolineato che la produzione di pellet richiede grandi quantità di energia elettrica. In paesi come Francia e Germania la pellettizzazione della biomassa risulta particolarmente competitiva perché di notte –per eccesso di energia di origine nucleare– l’energia elettrica è a bassissimo costo.
Tuttavia in questo caso non è corretto parlare di processo sostenibile, Ricordiamo che l’energia nucleare non è una fonte rinnovabile e le esternalità negative non sono marginali rispetto all’assenza di emissioni di gas climalteranti e di polveri sottili.
Il cippato di legna presenta invece caratteristiche intermedie fra le pezzature in ciocchi e in pellet.
Uno degli aspetti più negativi dell’utilizzo della legna in piccola scala è quello delle emissioni di polveri sottili e di incombusti. In qualche caso gli “esperti” degli enti e associazioni locali invocano l’utilizzo di tecniche di lavaggio dei fumi (scrubber) e filtri elettrostatici. Detti accorgimenti impiantistici sono tipici degli impianti industriali, molto efficienti ma completamente inapplicabili ad un impianto domestico. Lo scrubber crea poi una serie di problemi addizionali: il trattamento e lo smaltimento dell’acqua di lavaggio, che deve essere neutralizzata con alcali forti per evitare fenomeni di corrosione alle tubature.
Un’altra tecnologia che, grazie alla disinformazione, sembra affascinare il pubblico, i progettisti e gli imprenditori termoidraulici, è quella della pirogassificazione. I risultati poi si rivelano talvolta disastrosi, come nel caso di Sauris, –un Comune friulano– dove l’applicazione di questa tecnologia è costata all’erario pubblico quasi 1,4 milioni di euro.
In questa sede non ci compete entrare nel merito di valutare se si tratta o meno di tentata truffa da parte di fabbricanti, o maliziosa disinformazione di progettisti, o ancora di imperizia degli installatori, ma vorremmo almeno aiutare i lettori a fare un po’ di chiarezza. Innanzi tutto diciamo che le prestazioni degli impianti a syngas (gas di sintesi) spesso sono esagerate da parte di costruttori più o meno improvvisati, i quali si giustificano con l’argomento: «in Germania si fa così», ma in genere sono incapaci di fornire un bilancio termodinamico correttamente realizzato.
La tecnologia del syngas, risale ai primi del ’900, ma nacque per gassificare il carbone e non per alimentare il teleriscaldamento, e tanto meno per il riscaldamento domestico a biomasse.
Il principio su cui si basa questa tecnologia sembra banale (e forse per questo motivo affascina i nostri imprenditori tanto inclini a “inventare”): immaginiamo di disporre di un semplice bidone pieno di biomassa, riscaldarlo ad una certa temperatura, nel quale poi immettiamo una certa quantità di vapore. Otterremo una miscela di metano, idrogeno, monossido e diossido di carbonio, che anticamente veniva chiamata gas di città. Ci sono però due modi per produrre “gas illuminante” o “gas di città”: uno è basato sulla distillazione del litantrace –il carbone fossile– e l’altro è la gassificazione vera e propria. In termini chimici, la reazione appare pulitissima:
C + CO2→ 2 CO
C + H2O → CO + H2
CO + H2O → CO2 + H2
Purtroppo questo vale solo per il carbonio puro.
Quello che molti dimenticano è il fatto che la biomassa non è composta di solo C ed idrocarburi semplici come lo è il litantrace, bensì di polimeri complessi di C, H, O, N, e di innumerevoli composti minerali di S, K, Mg, Ca e Si in proporzioni variabili, che costituiscono le inevitabili ceneri.
Pertanto il processo di gassificazione della biomassa produce un gas molto più “sporco” del syngas da carbone, proprio per via delle reazioni secondarie, imprevedibili, controllabili solo ricorrendo a tecnologie piuttosto complesse.
Questa “sporcizia” del syngas da biomassa è rappresentata dai vapori di catrame e pece, genericamente chiamati col termine tar, che però in inglese si riferisce solo alla frazione solubile in acqua, appunto il catrame. Catrame e pece, quest’ultima insolubile in acqua e di aspetto gommoso a temperatura ambiente, sono deleteri per i motori a pistone che si pretende far funzionare con syngas da biomassa. Si possono eliminare con dei particolari sistemi di pulizia, ma la loro rimozione dal syngas ne diminuisce notevolmente il potere calorifico.
Il vero valore della tecnologia di gassificazione delle biomasse risiede nella possibilità di rimpiazzare una percentuale consistente di carbone in impianti che diversamente non potrebbero realizzare la co–combustione di carbone e biomasse se non con percentuali molto limitate di queste ultime.
L’impianto più grande d’Europa con questa tecnologia, 140 MW, si trova in Finlandia.
Impianti ancora più complessi e sofisticati utilizzano il syngas da biomasse in presenza di speciali catalizzatori per realizzare la reazione di Fischer–Tropf, che consente la produzione di combustibili liquidi sintetici per rimpiazzare i distillati di petrolio, o per la reazione di Sabatier, che consente di ottenere metano, o almeno di aumentarne il tenore di questo nel syngas.
Il sistema di gassificazione di biomassa più piccolo, viene prodotto in India. Si tratta di un fornello alimentato con pula di riso, destinato a rimpiazzare la bombola di GPL utilizzata per la cottura dei cibi dalle famiglie con scarse risorse. Il vantaggio di gassificare la pula di riso è quello di emettere meno fumo di quello dei bracieri tradizionali, aspetto non indifferente per la povera gente che deve cucinare in ambienti talvolta privi di camini adeguati.
Foto 2: Fornello gassificatore di pula di riso. Fonte Waste Management World.
Per concludere, il riscaldamento a biomassa presenta diversi gradi di sostenibilità a seconda della provenienza, del tipo di biomasse, e della tecnologia adottata. Valutando un impianto nuovo, unifamiliare o condominiale, sono preferibili i ciocchi o il cippato, meglio se preveniente da filiera corta, da bruciare in caldaie dotate di sistema di controllo della combustione (sonda lambda e centralina elettronica) e alimentazione automatica. Per chi volesse approfondire, il GSE http://www.gse.it ha pubblicato una guida al Conto Termico, nella quale sono riportati i requisiti che devono avere caminetti, stufe e generatori di calore a biomassa, le emissioni massime ammesse per ogni tipologia, e le certificazioni dei pellet, per poter beneficiare degli incentivi.