- scritto da Barbara Brunetti
- categoria Progetti
Fujimori e le opere che incarnano l’ideale di bellezza giapponese
Celebre in tutto il mondo è la saggezza orientale, ma quando essa si fonde con la sapienza tipica dell’architettura giapponese e con i materiali naturali più inusuali, il risultato non può che essere unico. Il castello Tsubaki di Terunobu Fujimori incarna l’ideale estetico del wabi–sabi e, con la sua forma modesta ed i materiali grezzi, sembra appartenere da sempre all’isola vulcanica Izu Oshima dove sorge.
Il Wabi–Sabi
Rappresentando l’ideale di bellezza tipica giapponese in cui nulla è finito, né eterno, né perfetto, il wabi–sabi si compone di due significati: wabi, semplicità, naturalezza, silenziosa eleganza, e sabi, bellezza insita nella patina del tempo non disgiunta da una serenità derivante dall’accettazione della finitezza delle cose. Tale visione deriva dalla dottrina buddhista dell’anytia che conferisce un’accezione positiva ai sentimenti di malinconia e desolazione perché essi permettono di liberarci dalla materialità della vita terrena aprendo la strada ad una vita spirituale più ricca. A. Juniper svela l’essenza di questa Weltanschauung orientale: “Se un oggetto o un’espressione può provocare dentro noi stessi una sensazione di serena malinconia ed un ardore spirituale, allora si può dire che quell’oggetto è wabi–sabi”.
L’architetto Fujimori e il vernacolare internazionale
L’architetto si affaccia sul panorama internazionale con le tea houses (case del tè) presentate nell’edizione 2006 della Biennale di Venezia. Classe 1946, T. Fujiimori studia e insegna storia dell’architettura giapponese del XX secolo. Solo all’età di 45 anni decide di confrontarsi con l’attività progettuale e dunque con i grandi maestri conterranei (Ando, Ito, Sejima). In realtà non è possibile confrontare architetture così diverse: egli rifugge ogni traccia di modernismo, da storico dell’architettura riesce a non cadere nella facile trappola dello storicismo, insiste nel tenere lontane le suggestioni dei suoi colleghi conterranei e contemporanei ed aspira a creare architetture che non assomiglino in alcun modo a quelle del passato. Kengo Kuma, di fronte alle sue opere, ha dichiarato di provare nostalgia per qualcosa che non aveva mai visto prima.
L’architetto riesce con estrema naturalezza ed originalità a realizzare edifici che danno l’impressione di essere lì da sempre. Utilizza materiali naturali e tipici del luogo, quali terra, pietra, legno, carbone, corteccia, stucco, sottoponendoli alla lavorazione pura e grezza della mano, libera dalle logiche della produzione industriale. Le pareti sono rivestite esternamente da tavole in legno tagliate a mano e bruciate, o da fogli di rame accartocciati e poi imbullonati, o da intonaco mischiato a paglia; i tetti sono ricoperti da lastre di ardesia o cortecce derivanti dai tronchi d’albero, tronchi levigati in maniera imprecisa e bruciati sono gli elementi che assumono tutta la carica simbolica della sua arte. Un’architettura tanto insolita merita una definizione tutta propria, come quella che è stata coniata in suo onore: “Vernacolare internazionale […] un movimento che rimanda ad una qualità internazionale dell’architettura del XX secolo e aspira al primo internazionalismo dell’Età della Pietra”.
Il Castello Tsubaki (Camellia Castle)
Il castello (1998–2000) sorge sulla cima di una collina nell’isola nipponica di Izu Oshima. Le sue proporzioni modeste e la funzione che vi si svolge all’interno fanno pensare, più che ad una castello, ad un edificio a misura d’uomo. Si tratta dell’ampliamento (un terzo edificio inserito tra due preesistenti) di una fabbrica che produce sakè, la tipica bevanda alcolica giapponese ottenuta dal riso. All’interno dell’edificio, un ufficio, una sala degustazione e uno studio al primo piano. Il muro in cemento armato è rivestito esternamente da lastre di andesite, roccia ignea effusiva, ordite secondo un disegno a maglia quadrata ruotata di 45°, le cui fughe sono riempite di terra ed erba. Ma nessuna impresa edile aveva accettato l’incarico poiché non era possibile quantificare il lavoro di riempimento delle fughe previsto dall’architetto: allora Fujimori, assecondando le tecniche costruttive tradizionali e volenteroso di sperimentarne di nuove ed originali, decide di fare da sé, definendo così un esempio alternativo di auto–produzione.
Egli indaga il rapporto architettura–natura con esiti tutt’altro che prevedibili: ricopre il tetto a padiglione di un manto erboso, posiziona un piccolo albero di camelia sulla sommità del tetto, lascia che l’erba si appropri dell’andesite di cui è ricoperto il muro. Lo storico giapponese finisce col produrre spazi non convenzionali utilizzando tecniche di lavorazione antiche, frutto di una sapienza artigianale secolare di cui si serve per esaltare l’imperfezione dell’oggetto. Solo una raffinata sensibilità artigianale può guidare il trattamento di un tronco d’albero che preveda di bruciarne e strapparne una certa quantità di materia. Il prodotto è un oggetto che, da un lato, evoca l’imperfezione tipica della lavorazione manuale, e dall’altro, interpreta la bellezza giapponese, estranea alla misura e alle proporzioni del canone greco. Il trattamento del materiale vivo attribuisce una forte carica espressiva all’opera di Fujiimori, la cui conoscenza dei luoghi, dei materiali e della storia è profonda tanto che gli dobbiamo il merito di aver saputo interpretare la tradizione senza cedere a meccanismi di sudditanza, ma anzi traendone spunto per una modernità onesta e originale, avulsa dalle tendenze fai–da–te di tanta parte degli architetti dei nostri giorni.