- scritto da Michele Candiotto
- categoria Progetti
Fabrizio Carola: in Africa le cupole in terra cotta dell’architetto napoletano
La barbara distruzione dei santuari di Timbuctù, inseriti fra i patrimoni dell’umanità dall’Unesco, è solo uno degli aspetti che ha acceso l’interesse della comunità internazionale sul Mali, un paese che attualmente è sottoposto ad uno sconvolgimento sociale e politico frutto di anni di malgoverno, corruzione, integralismo religioso e cattiva gestione delle risorse. Non è utile, in questo contesto, indagare su chi
ha fornito armi per avviare gli scontri e le rappresaglie militari, l’occasione è invece opportuna per riportare alla luce il lavoro di Fabrizio Caròla, architetto italiano che da più di trent’anni dedica la sua vita e la sua attività progettuale alla costruzione di edifici “utili” alla popolazione del paese africano.
Fabrizio Carola
“A me l’architettura non interessa. A me piace farla.”
La biografia di Caròla sembra tratta da un romanzo. Figlio di un’importante famiglia napoletana si diploma – nel 1956 – alla Ecole Nationale Supérieure d’Architecture “La Cambre” di Bruxelles, fondata da Henry Van de Velde.
L’ambiente di formazione risulta determinante per la definizione di un approccio “fisico” al progetto, un’architettura legata al fare, all’azione concreta del costruire.
Ma Caròla, non è solo un architetto, è un nomade alla costante ricerca di nuove strade, votato alla sperimentazione e alla scoperta. Proprio questa attitudine lo spinge negli anni 60’ verso l’Africa, un territorio a lui sconosciuto. In principio il Marocco dove partecipa alla ricostruzione post terremoto dell’ospedale di Agadir, poi la Mauritania, paese in cui realizza il suo progetto più importante, il Kaedi Regional Hospital, per il quale riceve nel 1995 l’Aga Kahn Award for Architecture – un edificio a cupole ribassate collegate da corridoi in grado di ospitare stanze per malati e residenze per i familiari, dove si concentrano tutti gli aspetti di un pensiero e di un modo d’agire sostenibile – e infine il Mali dove scopre e studia l’architettura sub–sahariana passando gran parte della sua vita.
In merito all’Africa afferma: “Per il mio lavoro, lì è tutto più semplice, una realtà meno strutturata, nei villaggi e nei paesi c’è più libertà, valida finché c’è il rispetto che impedisce di abusarne”.
La poetica architettonica
L’attenzione di Caròla è rivolta alla definizione di un rapporto simbiotico fra materia e luogo. L’architettura spontanea e l’architettura informale priva di architetti, diventa il punto di riferimento preferito, soluzioni e “segni” incondizionati realizzati esclusivamente per rispondere alle necessità.
La terra cruda, ma anche la terra cotta in forma di mattone, è il suo materiale prediletto, in grado di creare opere monomateriche, in cui si evita l’uso del legno per ridurre la costante desertificazione del territorio e si rifiuta l’impiego di ferro e cemento visti come elementi “alieni”, inadeguati al contesto.
Un repertorio di forme, archi, volte e cupole ribassate in grado di rispondere alla necessità di realizzare soluzioni economicamente vantaggiose e di rapida esecuzione, nate grazie all’uso del compasso ligneo, uno strumento proprio dell’antica cultura edile nubiana, ripreso e valorizzato dall’architetto egiziano Hassan Fathy.
Osservatore attento, Caròla guarda ai luoghi marginali come punto di ripartenza per una nuova visione della società e del costruire; la materia diventa elemento del comporre, la forma soluzione che accompagna i gesti e le necessità dell’uomo.
Non solo Africa
“Neagorà Sette Piazze” rappresenta un’incontro di luoghi e culture, un’esperienza singolare che l’architetto napoletano sta sviluppando a San Potito Sannitico, in provincia di Caserta. Un villaggio sperimentale, da realizzare con il contributo di studenti, professionisti e appassionati che nello spazio di un workshop vivono l’esperienza diretta del cantiere toccando con mano tecnologie ormai dimenticate.