- scritto da Virginia Patrone
- categoria Curiosità ecosostenibili
Tecniche sostenibili per la bonifica dei terreni inquinati
Il fitorisanamento (o fitobonifica, fitorimediazione), già ideato negli anni cinquanta, è una straordinaria tecnologia totalmente naturale che emerge nell’ambito dei più moderni sistemi di bonifica sostenibili, e che permette di ripristinare terreni industriali inquinati semplicemente piantumandoli con determinate piante “minatrici”, che si nutrono di metalli pesanti o composti organici estraendoli dal terreno, e rigenerano quindi il suolo inquinato.
Una pianta per bonificare l’Ilva di Taranto
Varie sono le piante che possono essere usate nel fitorisanamento e nella bonifica dei terreni inquinati e ad ognuna corrisponde una determinata caratteristica di estrazione, come per esempio il vetiver (Chrysopogon zizanioides) e la canapa (Cannabis Sativa) noti per assorbire i metalli pesanti in genere, il girasole selvatico (Helianthus Rigidus) che assorbe il nichel e il cromo, la senape indiana (Brassica Juncea) che si nutre di vari metalli tra cui il piombo, il cesio, il cadmio, il nichel, lo zinco e il selenio.
Anche alcuni alberi possono essere usati per la fitodepurazione, come per esempio il pioppo, pianta dall’alto potere evapotraspirativo (che ne denota il flusso del passaggio dell’acqua dallo stato liquido a quello di vapore e la diffusione del vapore acqueo dalla superficie vegetale all’atmosfera circostante) e ad alta formazione di biomassa, è capace di assorbire e accumulare nei suoi tessuti notevoli quantità di metalli durante il suo ciclo di vita.
QUALI SONO I BENEFICI DEL FITORISANAMENTO?
I benefici dati dall’uso del fitorisanamento sono molteplici: innanzitutto è una tecnica a basso impatto ambientale e a bassissimo costo, specialmente se lo si paragona ai metodi canonici di bonifica del territorio, che prevedono sbancamento del terreno inquinato, trasporto di tonnellate di materiale, oltre che il costo di smaltimento. La fitobonifica comporta anche un incremento della fertilità del suolo, un’azione di contrasto alla desertificazione e deforestazione, e un’azione di cattura e sequestro di anidride carbonica.
Inoltre dalla coltivazione delle piante per fitodepurazione si può ricavare una biomassa utilizzabile per uso non alimentare ma, come per la canapa, nel campo tessile e edile: infatti dalla canapa si possono creare materiali diversi utili per l’impiego nella bioedilizia, oltre che appunto fibre per tessuti naturali e carta.
Per alcune piante inoltre è possibile riestrarre dalle radici o dalla foglia il metallo pesante fitoestratto, e reinserirlo in un nuovo ciclo produttivo, cosa che piacerebbe molto al Signor Pauli, ideatore della Blue economy, che giustamente insiste sull’importanza del non creare rifiuti ma di riutilizzare gli scarti di una produzione per uno nuovo ciclo produttivo.
IL PROCESSO DEL FITORISANAMENTO
Per attuare il fitorisanamento di un’area prima di tutto è importante uno studio approfondito del sito da risanare, in modo da individuare la specie di pianta più adatta da usare a seconda delle caratteristiche specifiche del terreno contaminato e del tipo di inquinanti presenti. Inoltre è necessario che per tutta la durata della fitodepurazione vi sia un’ampia e costante attività di ricerca di supporto, tale da monitorare l’andamento del risanamento stesso.
Per quanto riguarda gli inquinanti assorbiti dalla piante, le sostanze possono essere o metabolizzate e trasformate in qualcos’altro (fitometabolizzazione), o stoccate (fitodeposito) o recuperate (fitoestrazione) come si può fare per esempio con rame e ferro bruciando le foglie delle piante minatrici.
Il solo lato negativo di questa tecnica è che ha un’applicabilità limitata per via del tempo relativamente lungo dell’intero processo di smaltimento delle sostanze nocive, legato al ciclo di sviluppo della pianta.
ESEMPI DI APPLICAZIONE
Per quanto riguarda l’applicazione del fitorisanamento, esistono già diversi studi autorevoli e alcuni precedenti di applicazione, come in Polonia nella zona interessata dal disastro nucleare di Chernobyl (dove le piante utilizzate per fitodepurazione dovranno comunque essere smaltite nei siti di depositi per le scorie radioattive), e anche dagli studi effettuati in Italia, a porto Marghera in Veneto, in Campania e in Puglia.
In particolar modo si manifesta la volontà da parte di attivisti, studiosi, agricoltori di utilizzare questa tecnologia per ripristinare il territorio di Masseria del Carmine a Taranto, dove nel 2008 le aziende agricole limitrofe alle acciaierie furono costrette ad abbattere 600 capi di bestiame contaminati da diossina e Pcb.
Anche in Campania, nell’ex area industriale dell’Italsider di Bagnoli, popolazione locale, attivisti e anche qualche amministratore, vorrebbero che si procedesse a ripulire il sito con tecniche di fitodepurazione dato che, come sostiene Amalia De Simone nell’articolo sulle inchieste del Corriere della Sera “Terra dei fuochi, quelle piante che ripuliscono dai veleni” (11/02/2014), l’area sarebbe già stata rigenerata due volte con metodologie classiche e pesantemente impattanti, ma pare che il lavoro eseguito non abbia sortito effetti favorevoli, tanto che l’area risulterebbe a tutt’oggi più inquinata di prima.
La tecnologia di rigenerazione del territorio ha –come si può facilmente dedurre– un potenziale enorme, se si pensa a tutte le aree che dovrebbero essere risanate, come per esempio ex discariche o ex zone industriali, e apporterebbe benefici sia al territorio che all’ecosistema locale, oltre che all’economia della zona trasformandosi in volano economico.