Consumo del territorio: il Bel Paese assediato dal cemento

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L’Italia è uno dei pochi Paesi al mondo che abbiano la tutela del patrimonio culturale e del paesaggio nella propria Costituzione, ma nonostante ciò gli abusi edilizi, l’aggressione al paesaggio e il consumo del territorio sembrano non conoscere ostacoli. La prima ragione per cui il territorio in Italia è consumato così voracemente è perché la speculazione edilizia (pardon, rendita fondiaria) è oggi l’investimento migliore. Ma

non è solo il costruttore rapace il motivo per cui tanti abusi sono perpetrati ogni giorno, non è solo il privato a trarne profitto monetario. Coloro che dovrebbero vigilare sul territorio, vale a dire i Comuni, sono spesso i primi che cercano di monetizzare ciò che gli resta per garantire le promesse fatte durante la campagna elettorale e alimentare circoli clientelari, riempendo così il serbatoio dei voti di scambio, do ut des. Ciò è possibile perché gli oneri di urbanizzazione fino a qualche anno fa erano utilizzabili solo per gli investimenti, oggi invece si possono usare per la spesa corrente visto che i bilanci dei comuni sono a rischio e con loro la spesa sociale. E se pur di fare cassa scendono a patti con gli speculatori significa che sono disposti a vendere il territorio pezzo per pezzo.

Il consumo di territorio in Italia

Secondo il Rapporto annuale Istat 2008 “l’espansione dell’urbanizzazione ha conosciuto negli ultimi decenniun’accelerazione senza precedenti, che si è prodotta in assenza di pianificazione urbanistica sovra–comunale in importanti aree del Paese (Mezzogiorno, Veneto e Lazio tra tutte) [..] Nel periodo 1995–2006 i Comuni italiani hanno rilasciato in media permessi di costruire per 3,1 miliardi di metri cubi, pari a oltre 261 milioni di metri cubi l’anno”. Due considerazioni servono ancora di più a dare il senso della misura:

  1. solo uno scarso 20% di questa cubatura riguarda i fabbricati esistenti, mentre più dell’80% riguarda i nuovi fabbricati;
  2. il dato è comunque sottostimato, poiché non considera le costruzioni abusive di cui l’Italia è leader nel settore come nessun’altro.

Sempre secondo l’Istat, tra il 1990 e il 2005 la Superficie Agricola Utilizzata (SAU) nel nostro Paese si è ridotta di 3 milioni e 633 mila ettari, ovvero significa che un’area di proporzioni abnormi più vasta di Abruzzo e Lazio messi insieme è stata sommersa da una colata di calcestruzzo. Il cemento però non ci nutre, a differenza della terra da cui dipenderemo sempre, che lo si voglia oppure no.

Nel dossier “2009 l’anno del cemento”, il WWF registra che “dal 1956 al 2001 la superficie urbanizzata del nostro paese è aumentata del 500% […] il consumo del suolo ha viaggiato al ritmo di 244000 ettari l’anno […] ogni giorno in Italia vengo cementificati 161 ettari di terreno”.

Tra i paesi d’Europa, l’Italia è quello che da anni ha il più basso tasso di crescita demografica e contemporaneamente il più alto tasso di consumo di territorio. Dato che il cemento non cresce spontaneamente e dato che la nostra nazione detiene orgogliosamente il record di case sfitte in Europa, (il 24% sul totale degli appartamenti, contro una media europea dell’11,8%), questo paradosso della crescita ingiustificata non può che prendere il nome di speculazione. Come sottolinea l’urbanista Edoardo Salzano: “oggi il territorio è semplicemente uno strumento per la costruzione di case, e di case che restano vuote, spesso”. 

 

Analisi, cause e conseguenze del consumo di territorio 

Se si considera il problema da un punto di vista storico, la prospettiva si fa ancora più chiara. In Italia infatti il consumo annuo di cemento è passato dai 50 kg pro–capite del 1950 (nel pieno boom edilizio della ricostruzione), ai 400 kg pro–capite del 2007; il che non ha alcun senso. Una tendenza alla crescita chiaramente speculativa che è sotto gli occhi di tutti e che non pare arrestarsi neanche in tempo di crisi.

Cantieri che spuntano anche in posti impensabili, senza risparmiare parchi, zone protette e sottoposte a vincoli, di natura ambientale, paesaggistica o architettonica. Anzi, più le aree sono pregiate, più sono appetibili per il mercato. E’ infatti certamente più attraente un insediamento residenziale nei pressi di una riserva naturale, magari tutelata dall’Unesco, rispetto ad un ennesimo condominio nella periferia già urbanizzata e affollata di una metropoli inquinata.

In Italia esistono sacche di resistenza civile che sognano un modello di sviluppo urbano alternativo, ma coloro che si oppongono al consumo del territorio, alle Grandi Opere Inutili, agli ecomostri, alle discariche e agli inceneritori vengono immediatamente messi a tacere con la retorica del NIMBY (Not In My Backyard – non nel mio giardino). Difendere i beni comuni (l’interesse di tutti) dalle speculazioni dei privati (l’interesse di pochi), un tempo si chiamava semplicemente buonsenso.

Ma la speculazione edilizia sul territorio dipende anche da altre variabili, come l’impoverimento dell’agricoltura ed il mito della crescita industriale infinita; ma soprattutto, il pensiero speculativo va a nozze con il monoblocco ideologico della politica sempre a favore delle nuove costruzioni, qualunque esse siano, nel nome del PIL, amen. Vi si aggiunga la legittimazione all’abuso costituita dalla mentalità malata del condono, capace di sanare qualsiasi nefandezza con un meccanismo tristemente simile a alla compravendita delle indulgenze medievali (paga e sarai assolto). Su tutto però svetta l’arretratezza culturale della classe dirigente, giunta ormai a livelli di pochezza imbarazzanti, del tutto priva non solo di apertura mentale, ma anche del benché minimo spessore umano. E questi erano i lati migliori.

Infine, un’ulteriore conseguenza della furia edilizia incontrollata riguarda le identità e le peculiarità di paesi e città, destinate a perdersi in un unico anonimo e piatto contenitore che ormai si è sostituito a qualunque forma urbis. Agglomerati urbani del tutto simili e sovrapponibili tra loro (siano essi un quartiere di Roma, Bari, Torino o Napoli), che non restituiscono la storia del luogo ma che sono modellipreconfezionati, buoni in Pianura Padana come nel Tavoliere delle Puglie, sono il frutto di questa cultura del cemento. Una “cultura” che genera insediamenti residenziali anonimi e portatori di degrado, che svuota i centri storici per indirizzare le vite dellefamiglie verso scialbe periferie, invitandoli a preferire alle passeggiate nei parchi, lo shopping compulsivo nei centri commerciali dai panorami artificiali e alienanti, i cosiddetti nonluoghi. Simbolo per eccellenza di questa non–cultura è più di ogni altro il capannone, campione di bruttezza nonché principale avamposto del cemento che avanza fiero sul territorio, un elemento che da Nord a Sud è in perenne fioritura, in una Primavera da incubo che nessun Vivaldi riuscirebbe mai a tradurre in musica. La “capannizzazione” del territorio è un fenomeno tutto italiano che pesca nella torbidità degli interessi monetari locali e sovra–locali senza tener conto di nessun elemento di gestione del territorio. Capannoni che nella stragrande maggioranza dei casi sono vuoti, inutilizzati, poiché non vengono calibrati sulle reali necessità del territorio, per questo diventano presto monumenti allo spreco, inservibili e irreversibili, un costo per i cittadini e una ferita al paesaggio.

La spinta al consumo di territorio viene spacciata all’opinione pubblica come una necessità dell’economia, che avrà certamente ricadute positive sul benessere dei cittadini: “il nuovo polo commerciale porterà posti di lavoro, sviluppo, nuovi investimenti”. Dunque, visto il tasso di cementificazione di cuil’Italia detiene il record, dovremmo essere una delle locomotive economiche d’Europa nonché il Paese dove il livello di qualità della vita è più alto. E invece non è così, è vero anzi il contrario, l’equazione cemento= sviluppo è fasulla poiché si basa su premesse infondate, ma nonostante ciò, largamente condivise.

Come uscirne? Reagendo al saccheggio delle risorse naturali e dei beni pubblici, opponendosi all’urbanizzazione incontrollata, denunciando le speculazioni, pretendendo città vivibili, informandosi e tenendo bene a mente che la difesa del paesaggio e del territorio non è un lusso, ma uno dei migliori investimenti per un futuro sostenibile.

Alberto Grieco

Alberto Grieco Architetto

Frequentando una signora chiamata Storia, ha scoperto che l’architettura bio-eco-ecc. non ha inventato Nulla©, ed è per questo che perde ancora tempo sui libri. Architetto per vocazione; tira con l’arco, gira per boschi, suona e disegna per vivere. Lavora nel tempo libero per sopravvivere.