- scritto da Vanessa Tarquini
- categoria Progetti
Zaha Hadid: "Sono un architetto, non una donna architetto"
Non aveva un carattere facile Zaha Hadid, l’architetto di fama internazionale venuta a mancare lo scorso 31 Marzo. Lo aveva confessato ella stessa in un’intervista rilasciata a maggio del 2015. Quando le fu chiesto se è vero che un architetto debba essere un insieme di numerosi talenti, disegnatore, ingegnere e diplomatico, con la franchezza che la distingueva ammise che la diplomazia non era la sua migliore qualità. Per rendere bene l’idea raccontò di quando, agli inizi della sua carriera, Rem Koolhaas le chiese di lavorare nel suo studio OMA. “Solamente come Partner!” fu la sua risposta. E alla replica dell’olandese di accettare, a patto che fosse una partner ubbidiente, aggiunse un secco NO! “Fu la fine della mia carriera”, scherzava lei.
In copertina: a sinistra foto di © Matthew St.Leger; a destra foto di © AJEduardo
L'ULTIMO PROGETTO DI ZAHAHADID IN CINA
Zaha, architetto ma prima di tutto donna
Zaha Hadid o semplicemente Zaha, come è ormai conosciuta in tutto il mondo, era una donna che si è fatta spazio in un mondo di uomini con quella che Stefano Boeri ha definito “una cattiveria difensiva”. A lungo è stata “l’architetto di carta”, perché per circa 10 anni non realizzò quasi nulla. "Sei un’artista" o "non male per una ragazza" erano solo alcuni dei commenti che riceveva per i suoi progetti. Erano gli anni Ottanta e le donne non andavano mai oltre un certo livello; “Si supponeva che non potessi avere un’idea. Se invece sei un uomo non solo puoi averla ma puoi anche essere esigente” sottolineava lei senza peli sulla lingua in un'intervista del 2013.
La critica: tra Suprematismo e Futurismo
Ma le critiche ricevute dalla Dame (equivalente femminile del titolo di Knight, cavaliere, nel Regno Unito) non erano solo una "questione di genere".
Per molti le sue opere incarnano i peggiori impulsi dell’esuberanza architettonica più recente, perché cede al virtuosismo scultoreo a scapito della logica e dell’efficienza; perché predilige l’estetica anziché la funzionalità. Vittorio Gregotti definisce quelle di Hadid delle “illustrazioni progettuali” che non hanno niente a che fare con i grandi suprematisti e costruttivisti russi ai quali guardava per la sua architettura. Per Norman Foster invece, il trionfo di Zaha sta nell’andare oltre la visione grafica, trasformando in realtà quel suo approccio scultoreo all’architettura che tanto indispone i suoi critici più feroci.
“Non si potrebbe pensare alla leggerezza e alla tendenza a librare verso l’alto che ha creato i presupposti per i grattacieli di Mies van der Rohe a Chicago e New York senza citare i grandi artisti russi. La mia architettura è fortemente influenzata dal Movimento Moderno. Quell’idea del modernismo secondo cui ogni volta che si raggiunge un determinato scopo ci si ferma per poi ripartire è ancora di grande attualità” (Conversazione con Margherita Guccione, Roma, marzo 2003). Dai maestri russi apprende infatti la geometria frammentata, il caos calcolato ma soprattutto la sfida della legge di gravità. “Malevich Tektonik” è il titolo della sua tesi di laurea, un progetto di un ponte sul Tamigi, dove il termine Tettonica riassume in sé la teoria delle forme pure e della sensibilità plastica elaborata dal maestro russo tra il 1910 e 1914. Ma quella della Dame è una tettonica un po’ sui generis, come la definisce Luigi Prestinenza Puglisi (L. Prestinenza Puglisi, Zaha Hadid, I quaderni de L’Industria delle Costruzioni, Edilstampa, Roma 2001), nella quale l’attenzione si sposta dal contenitore al contenuto, dall’involucro allo spazio, “trasformando -per usare le parole dell’Hadid- tutti i vincoli possibili ed immaginabili in nuove opportunità spaziali”.
Le linee sinuose e le forme architettoniche inaspettate, protagoniste di uno spazio mutevole, carico di energia e svincolato dalle coordinate cartesiane, sono state definite come futuristiche. A chi le chiedeva perché nei suoi progetti non ci fossero linee rette ed angoli a 90° lei rispondeva: “Semplicemente perché la vita non è una griglia. Prendete un paesaggio naturale, non c’è nulla di regolare o piatto, ma tutti trovano questi luoghi molto piacevoli e rilassanti. Penso che dovremmo cercare di ottenere questo con l’architettura, nelle nostre città. Di orribili edifici a basso costo se ne vedono fin troppi”.
E proprio il costo era un’altra accusa mossa ai suoi progetti, ritenuti troppo cari oltre che fuori contesto. Le polemiche seguite alla vittoria del concorso per lo Stadio delle Olimpiadi di Tokio 2022 sono uno degli esempi più eclatanti. Rinominato “l’astronave” e rimproverato per essere fuori scala rispetto all’intorno, il progetto di Zaha Hadid Architects è stato infine sospeso per il budget eccessivo, raddoppiato rispetto alle stime iniziali.
Quasi in senso di sfida verso quanti giudicavano i suoi edifici totalmente avulsi dal contesto, la Dame riteneva che il filo conduttore che univa tutte le sue opere del XX secolo fosse il “public domain”. Letteralmente significa “dominio pubblico” ma l’architetto anglo-irachena vi attribuiva un’accezione più ampia, ovvero collocare un edificio su un determinato sito, integrando questo sito nella vita della città e creando allo stesso tempo spazi pubblici per la gente.
Le donne e l’architettura secondo La Dame Zaha Hadid
Le difficoltà del suo essere donna, araba e di religione musulmana non le ha mai negate, ma non ne ha fatto un cruccio. Nel suo studio di Londra le “quote rosa” sono pari al 30%, una percentuale bassa, colpa non solo degli uomini. Quello dell’architetto è un mestiere difficile per chiunque e la stessa Hadid sconsigliava di farlo a quanti in cerca un lavoro “dalle 8 alle 17”. L’architettura richiede impegno assoluto, continuità, lunghi orari e spirito di sacrificio. Per le donne gli ostacoli sono maggiori; una volta diventate mamme è complicato “rientrare” senza una società che le supporti. L’Inghilterra non fa differenza secondo Zaha, anzi. Londra offre grandi opportunità ma l’immigrazione comporta anche famiglie piccole e donne spesso sole che alla fine sono costrette a mollare.
Lei però non ha mai visto il suo lavoro come una frustrazione; lo considerava una scelta personale, come quella di non avere figli; una decisione discutibile (anche lei non escludeva di potersene pentire un giorno) ma coerente: non era una donna di compromessi così come non lo era -e non lo è- la sua architettura.
Tra aspre critiche e profondi elogi, Zaha Hadid è riuscita ad imporsi nel panorama internazionale. La sua architettura, esuberante come la sua personalità, è stata premiata con numerosi riconoscimenti. Nel 2004 fu la prima donna insignita del Prizker Prize, l’equivalente del Nobel per l’architettura. “Non me lo aspettavo” affermò. “Spero che lo diano a molte altre donne e che vengano riconosciute anche partner di architetti, come Denise Scott Brown”. Ma dopo di lei sarà assegnato solo alla giapponese Kazuyo Sejima nel 2010.
Ai microfoni della CNN, subito dopo aver ricevuto il Prizker, aveva sottolineato di come in passato non le piacesse essere additata come un architetto donna. “Sono un architetto, non solamente una donna architetto”. Ma col tempo questa definizione se l’era cucita addosso, come i vestiti che realizzava quando si trasferì a Londra per studiare architettura: “vedo l’enorme bisogno di molte donne che questa rassicurazione venga fatta quindi mi dispiace affatto”.
Niente male per una ragazza!