Corporate Social Responsibility (CSR): come valutare la sostenibilità

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A luglio del 2010 la Commissione Europea, s’impegnò definitivamente a lanciare una nuova politica per lo sviluppo equo sostenibile nel triennio 2012–14. Nel suo comunicato la UE definiva il concetto di Corporate Social Responsibility (CSR), fissava la data per la sua adozione e i criteri per valutare la sostenibilità delle imprese ponendo le basi della Strategia Europa 2020 per la crescita economica, la coesione sociale e la protezioneambientale a lungo termine All’approssimarsi della scadenza dell’encomiabile programmazione europea ci siamo chiesti come sia stato recepito in Italia il CSR e quali benefici abbia portato.

Europa 2020 e la strategie di rilancio dell’economia

LA UE INSISTE SUL CSR, PERCHÈ?

Precisiamo che la comunicazione europea numero 681 definisce in maniera inequivocabile il concetto di Corporate Social Responsibility (CSR) come: “quel mezzo con il quale le imprese possono contemplare, su base volontaria, nella loro attività di business e nell’interazione con i loro stakeholder, aspetti sociali e ambientali nei loro bilanci economici.

Le ragioni per cui la UE promuove il CSR originano dalla ormai lontana definizione di sviluppo sostenibile e recentemente trovano concreta giustificazione in seno all’attuale crisi economica e sociale, esplosa in mezz’Europa definitivamente nel corso del 2008, la quale si è palesata come una progressiva diminuzione della fiducia del consumatore verso i mercati e di conseguenza anche come un’importante riduzione del business per le imprese.

La UE ritiene che, catalizzando l’attenzione pubblica sulle prestazioni etiche e sociali, attraverso l’introduzione del CSR per valutare la sostenibilità delle aziende, si creino le condizioni favorevoli, nel medio e lungo termine, per la crescita sostenibile, il business responsabile e la generazione di occupazione stabile.

Innanzi tutto, distinguiamo due visioni con le quali le imprese devono imparare a confrontarsi se vogliono aumentare la possibilità di sopravvivere.
Secondo un’analisi top down, abbiamo una strategia europea che – come dicevamo di fatto già in atto dal 2001 con la presentazione di un “libro verde” (Green Paper–COM/2001/366)– ha puntato a sostenere possibili alleanze fra i vari portatori d’interesse per il raggiungimento di un modello di sviluppo sostenibile a livello globale e, nel contempo, il mantenimento dei livelli europei di benessere e di qualità ambientale nel medio e lungo termine. In altre parole, ciò significa che ciascun Paese membro della UE è tenuto a sforzarsi ad intraprendere un processo di riordino interno per allinearsi ai programmi comunitari riguardanti: la corretta gestione dell’economia, l’inclusione sociale e l’attenzione alla risoluzione delle criticità ambientali. Per facilitare tale processo di allineamento, la UE nel 2014 lancerà un nuovo programma settennale di finanziamenti: Horizon 2020.

Secondo un’analisi bottom up, abbiamo consumatori –sempre più esigenti ed eruditi– in lotta quotidiana per la difesa dei loro diritti e intenti a decodificare subdole strategie di green washing, delle quali spessosono vittime inconsapevoli.
Spesso le aziende credono sia sufficiente affidare la loro immagine agli addetti del green washing, ovvero marketer esperti in comunicazione, strapagati per redigere “politiche” ambientali e sociali arzigogolate, dunque senza alcun fondamento concreto.
Ma oggi le aziende devono finalmente fare i conti con il consumatore consapevole, colui che valuta, un determinato prodotto o servizio, non più esclusivamente in base al criterio dell’ottimizzazione del rapporto costo–benefici ma anche in base al corrispondente impatto ambientale e sociale generato a monte del processo produttivo.
In altri termini: il consumatore non vuole essere complice di politiche aziendali ad alto impatto.

Aggiungiamo che spesso sfuggono ai controlli gli illeciti ambientali –legati ad alcune fasi del processo produttivo– e siccome i relativi danni non sempre sono visibili nell’immediato sono perciò difficilmente imputabili al diretto responsabile, e in ultima analisi ricadono sulla collettività. Ricordiamo che nel diritto ambientale, in mancanza di un colpevole accertato il danno deve essere sanato dalla collettività (lo Stato), la quale paga anche le conseguenze più alte in termini di salute senza poter accedere a risarcimenti diretti, fatti salvi alcuni rarissimi casi, grazie al contributo di sentenze della Cassazione.

Senza timori diciamo che sono ancora molte le imprese, specialmente le multinazionali, che regnano nel Limbo dell’ipocrisia del “predico bene e poi razzolo male”.
Suffraga, purtroppo quest’analisi, il drammatico incidente avvenuto recentemente in Bangladesh. Si tratta dell’”annunciato” crollo di un fabbricato di otto piani che ha comportato almeno 350 vittime, perlopiù lavoratori schiavizzati da una sistema industriale spregiudicato, di cui fanno parte anche note imprese italiane del settore della moda.
Il fattaccio ha dunque messo in luce la cruda realtà dello schiavismo che altrimenti sarebbe rimasta occulta, con la complicità –in nome del profitto economico– di governi corrotti, spietati annientatori dei propri connazionali .

Come cittadini europei dovremmo colpevolizzare tutte quelle aziende che fondano la loro ricchezza calpestando, da una parte, i diritti umani in materia di sicurezza nei Paesi in via di sviluppo proprio dove hanno spostato la loro produzione e, dall’altra, sottraendo notevoli opportunità di lavoro ai propri connazionali, che per far fronte all’aumento del caro vita, nuove perequazioni, tassi bancari da usurai e uscire dal tunnel della disoccupazione devono abbandonare la propria Patria affrontando non poche sofferenze psichiche.

Vale lo stesso giudizio negativo nei confronti dell’industrializzazione, nata con l’encomiabile scopo di sollevare i lavoratori dai lavori alienanti e per rendere i prodotti economicamente più accessibili, ma che oggi trova nei robot dei perfetti alleati contro il blocco delle norme stringenti che regolano in materia di sicurezza degli ambienti di lavoro, di orari, di ferie e permessi, di aumenti di retribuzioni per anzianità e via dicendo.

All’aumento della crisi nelle fasce sociali di operai e impiegati corrisponde però un fenomeno opposto: l’aumento consistente della ricchezza detenuta da un manipolo di potenti, gente probabilmente furbissima, ma soprattutto fortunata poiché gode di posizioni privilegiate, rendite di posizione, si avvantaggia di vuoti legislativi e non indugia dinnanzi all’opportunità di ricattare i governi di turno, con la minaccia della delocalizzazione dei propri stabilimenti, quando le leggi locali diventano ostacoli al raggiungimento del proprio profitto economico.

I RISULTATI DELLA POLITICA EUROPEA

Le politiche di promozione del Corporate Social Responsibility(CSR) hanno influito sul raggiungimento dei seguenti risultati rilevati nel 2011:

  • Il numero di imprese che hanno aderito ai principi di United Nations Global Compact ha quasi raggiunto le 2.000 unità;
  • Il numero di organizzazioni certificate EMAS (Environmental Management and Audit Scheme) ha superato le 4.600 unità;
  • Il numero di imprese europee che hanno firmato accordi transfrontalieri con organizzazioni di lavoratori europei o extraeuropei coprendo temi riguardanti gli standard lavorativi ha superato le 140 unità;
  • Il numero delle imprese europee che pubblicano report di sostenibilità in accordo alle linee guida del Global Reporting Initiative supera le 850 unità.

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IL CSR IN ITALIA

Nel complesso contesto descritto si è inserito il lavoro dell’Istat e del CSR Manager Networkcui obiettivo è stato individuare nuovi indicatoridi sostenibilità per confrontare in modo corretto i bilanci sociali e ambientali delle aziende.

Il pacchetto di parametri è stato tarato su imprese del calibro di Assicurazioni Generali, Autogrill, Enel, Hera, Pirelli, Terna e Unipol nell’ambito di un progetto di ricerca durato due anni e terminato nel 2012.
Anche se i risultati sono disponibili solo per coloro che sottoscrivono la quota associativa del network italiano dei Corporate Social Responsibility manager, lo studio ha individuato un metodo chiaro e univoco per elaborare un mare magnum di unità di misura discordanti, di comparazioni parziali e quindi per evitare fuorvianti calcoli approssimativi.

Insomma, fino a poco tempo fa stilare una classifica attendibile delle aziende più sostenibili per settore industriale, cioè di quelle che includono i parametri del benessere, della tutela delle risorse naturali, e della dignità del lavoro era un lavoro difficoltoso se non impossibile per la disomogeneità dei dati.

Nel nostro Paese, per difendersi dagli attacchi da parte delle associazioni ambientaliste, le aziende che hanno avviato il percorso di Corporate Social Responsibility sono all’oggi alcune migliaia, mentre quelle che si sono dotate di manager della sostenibilità sono il 40% delle aziende quotate in borsa. E’ stato stimato che in Italia i CSR manager registrati sono già 350 di cui il 56% sono donne. Ciò testimonia il loro ruolo chiave di questa nuova figura manageriale nelle strategie comunicative aziendali.

Secondo l’associazione nazionale dei CSR le imprese sono ben disposte ad investire denaro: i manager hanno in media uno stipendio annuo lordo da 79.000 euro, in alcuni casi arriva a superare i 120.000, mentre il compenso annuale per i collaboratori è di 38.000 euro. In media, ogni manager dispone di 4 collaboratori e gestisce un budget di circa 200.000 euro.

GLI INDICATORI DELLA SOSTENIBILITÀ AZIENDALE

La scelta corretta degli indicatori per misurare i fenomeni di un determinato sistema è fondamentale nel processo di valutazione di un qualsivoglia sistema. Nel project management un indicatore efficace deve essere SMART, che in inglese non significa solo intelligente, ma è anche l’acronimo di: Simple, Measurable, Achievable, Relevant, Time related, ovvero realistico, misurabile, attuabile, specifico e temporalmente definito.
Gli indicatori individuati nel menzionato progetto di ricerca italiano vengono estrapolati dai bilanci volontari delle aziende e, come evidenziato nella tabella, misurano gli impatti in quattro macro aree: Economia, Energia, Ambiente ed Equità sociale.

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Per concludere: se i consumatori fossero consapevoli delle loro scelte commerciali avrebbero la possibilità di discriminare tutti quei prodotti o servizi insostenibili, e potrebbero così influenzare in modo sensibile le politiche aziendali e quindi non dovrebbero accontentarsi di quello che viene loro propinato.

In un momento in cui la crisi economica e finanziaria soffocano le fasce sociali più deboli, ci auguriamo che la strategia europea sull’introduzione della responsabilità sociale e ambientale possa limitare efficacemente il rischio concreto che i diritti dei lavoratori vengano cancellati in nome di altre priorità, come ad esempio la sopravvivenza delle imprese anche quando queste operino chiaramente perseguendo il proprio ed esclusivo beneficio a svantaggio di una’ampia collettività. 

Giovanna Barbaro

Giovanna Barbaro Architetto e Tecnologo

Deve il suo carattere cosmopolita a Venezia, dove si laureò in architettura (IUAV). Dal 2008 europrogettista nei settori green economy e clean tech. Nel 2017 ha realizzato uno dei suoi più importanti sogni: fondare Mobility-acess-pass (MAP), un'associazione no profit per la certificazione dei luoghi pubblici per le persone con disabilità motorie. Tra i suoi hobby preferiti: la fotografia e la scrittura