Community gardens di New York: i cittadini si riappropriano dei paesaggi di quartiere

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New York non smette di trasformarsi. Quartieri e paesaggi urbani tornano nelle mani dei cittadini che tessono nuove relazioni spaziali e danno vita ai community garden. Le grandi città nella loro incessante maratona per salire sul palcoscenico della globalizzazione, distrattamente lasciano spazi vuoti, frammenti, dross scapes, terrain vague, land stocks, scarti; la produzione mai in crisi della nostra “urban age”. Questi vuoti, brani dimenticati di città, sono stati oggetto di una doppia interpretazione: da un lato, le amministrazioni governative li hanno considerati come parti critiche della città, come frange problematiche dello sviluppo urbano, dall’altro i cittadini ne hanno fatto spazi di sperimentazione, dotandoli di nuove qualità, valori, di un nuovo ciclo di vita, nel tentativo di colmare la difficoltà di vivere nella città contemporanea, di sentirsi “indigeni”, cittadini della realtà locale.

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È in questa ottica che sono nati i community gardens del Lower East Side di New York, materializzazione di attivismo urbano nella marginalità, di autogestione nel tentativo di rivendicare il proprio diritto ad esistere come cittadini, di non subire più passivamente le trasformazione dei “propri paesaggi”, di bellezza nell’inaspettato, di creatività, di sperimentazioni iniziate proprio in virtù del fatto che tali spazi dell’abbandono erano privi di interesse per molti.

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C’è chi, come Ivan Illich, afferma che questi spazi fossero una maniera subdola, una strategia politica di sbarazzarsi del welfare, che addossa tutti i costi del fare società ai cittadini, al loro fare informale” (Pasquali Michela, I giardini di Manhattan. Storie di guerrilla gardens), ma forse è ancora giusto credere nella possibilità che “l’Architettura senza architetti” possa avere grande forza.

IL QUARTIERE DI LOISAIDA A NEW YORK

Il quartiere: vicende storiche

Loisaida è un piccolo quartiere di Manhattan, caratterizzato dai tipici tenements (particolare tipologia edilizia con cornicioni decorati e scale antincendio in facciata), ma ancor di più dai numerosissimi edifici in rovina, testimonianza degli incendi dolosi e dei disinvestimenti che, dagli anni ‘60, hanno caratterizzato la storia dell’area, dando vita a buchi nel denso tessuto edilizio, spesso “ricchi” di macerie, frutto di un processo di abbandono e decadenza iniziato con la Grande Depressione degli anni ‘20 e protrattosi fino agli anni ‘80 quando, la comunità portoricana, che aveva trent’anni prima dato un nuovo volto al quartiere con attività artistiche e culturali, tremendamente impoverita, fu costretta ad abbandonare gli immobili, sostituita dall’emergente middle class.

Seguirono varie battaglie della comunità “locale” per difendere il quartiere dalla crescente gentrification, dall’imborghesimento che minacciava di mutare totalmente il volto di un’area da sempre proletaria, battaglie spesso attuate creando spontaneamente giardini per ridare vita a zone degradate.

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La storia dei giardini di Loisaida rispecchia quella più generale dei community garden, nati a fine ‘800 in USA utilizzando i vacant lots per rispondere ad esigenze quali sussistenza, lavoro, integrazione, in particolar modo nei periodi di crisi.
Potato Patches (1894–1917), School Gardens (1900–1920), Garden City Plots (1905–1910), Liberty Gardens (1917–1920), Relief Gardens (1930–1939), Victory Gardens (1941–1945), sono tutti piani che, nella storia, hanno incentivato la nascita di orti urbani/giardini comunitari come modalità di assistenza alle fasce di popolazione più bisognose, per migliorare l’aspetto di aree deturpate dall’abbandono, produrre cibo e occupazione e, non ultimo, educare ai valori civici; dagli anni ‘70 in poi, superata l’emergenza alimentare, i vacant lots continuarono ad essere convertiti, per iniziative dal basso, in community gardens, questa volta con la principale finalità di rendere le città più accoglienti, vivibili, verdi, pulite e sicure.

I giardini

Il primo giardino di quartiere (Liz Chrity Garden) nacque negli anni ‘70 grazie all’azione sovversiva di un gruppo di attivisti, i Peace Corps Types, che lanciarono all’interno di un lotto abbandonato e recintato dei palloncini di terra e semi; in poco tempo, grazie al lavoro dei cittadini, alle donazioni di piante da parte di vivaisti e all’opera di volontari i community garden di Loisaida proliferarono e, nel 1995, queste “occupazioni” vennero legittimate anche a livello legislativo mediante un sistema che dava in affitto i lotti ad un prezzo simbolico di un dollaro.

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Intanto il punto di vista condiviso era mutato: i terreni abbandonati non erano più privi di valore, ma spazi dove materializzare la campagna di investimenti per costruire edifici più confacenti alla middle class da poco insediatasi nel quartiere; iniziò così la demolizione di molti giardini, frammenti di natura, momenti di evasione all’interno di una rigida maglia di edifici, resa peraltro desolante dal degrado e dal pesante traffico.

Nonostante le difficoltà gli stessi, tutti diversi l’uno dall’altro, continuano ad avere una grande importanza per la vita comunitaria del quartiere, creando aggregazione, migliori condizioni di vita, punti di riferimento per la vita pubblica, benefici ambientali; per la loro bellezza, utilità e salute, nel drammatico conflitto ambientale in cui tentano di sopravvivere, sono un bene di grande valore, che merita ogni cura e attenzione” (Pasquali Michela, I giardini di Manhattan. Storie di guerrilla gardens).

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Definiti da Michela Pasquali “eterocliti” per la loro forma mutevole, in continua evoluzione, data da combinazioni inaspettate di linguaggi espressivi anche molto distanti tra di loro, sono luoghi intrisi di significati simbolici, quasi onirici, di nostalgia per i localismi, palinsesto di interferenze culturali molteplici, non ascrivibili ai consueti codici architettonici ma comunque caratterizzati da comuni denominatori quali la variabilità, l’originalità, la mancanza di un vero e proprio progetto, la povertà dei mezzi impiegati ( vi si pratica un totale riuso dei materiali), l’impiego di vegetazione rustica, in grado con poche cure di ben acclimatarsi al contesto, l’acqua (spesso in forma di laghetti tondeggianti), la presenza di collezioni di arte, sculture o semplici oggetti quotidiani.

Il risultato è quello di trovarsi immersi in luoghi di grande originalità, altamente scenografici, in cui si manifesta come il rapporto uomo–natura abbia finito per ribaltarsi: non più l’uomo che cerca di proteggersi dagli imprevedibili eventi di una natura selvaggia e misteriosa ma che la racchiude per preservarla, per restituirle spazi, libertà.

Giulia Radaelli

Giulia Radaelli Architetto

Innamorata dello spazio nel senso più lato del termine coniuga questa passione con la professione di architetto. Nel tempo libero si diletta con la fotografia, per cogliere l’inusuale nella quotidianità trascurata dall’occhio distratto, con viaggi e immergendosi in romanzi capaci di condurre in realtà lontane.