Case belle per i più. L’architettura oggi secondo Franco Purini

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Quest’anno la Fondazione Cassa di Risparmio di Cesena ha organizzato un ciclo di conferenze dedicate a temi scientifici di interesse e attualità. Tra queste, l’incontro con il Professore e Architetto Franco Purini, uno dei maestri dell’architettura italiana contemporanea, dal titolo “Case belle per i più”, meritaun’attenzione particolare. Il titolo dato alla conferenza è scaturito dalla risposta a una domanda che il filosofo Galvano della Volpe si sentì rivolgere durante un suo discorso. “Qual è il compito dell’architettura?” gli domandarono. La sua risposta, serafica, fu: “Case belle per i più”.

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Tra i contenuti della relazione di Franco Purini, un florilegio di racconti tutti equamente interessanti: il concetto di bellezza, il tema della residenza e la personale visione dell’arte dell’architettura, così eccellentemente argomentati dal maestro durante la conferenza “Case belle per i più”, sono oggetto di questo articolo che desidero condividere con voi lettori.

Per Stendhal la bellezza è una promessa di felicità. Il fine dell’architettura, quindi, non è che la felicità, per cui essa non può permettersi di parlare di tristezza o di dolore. Tutti ci chiediamo che senso avrebbe vivere questa vita terrena senza la bellezza: la risposta a questa domanda retorica ci porta a “compierci” nella bellezza, a farla diventare il nostro fine ultimo, il nostro destino.

L’architettura è un fatto spontaneo, dunque, deve “darsi a noi” naturalmente e senza essere “richiesta”: è necessario che essa non ci invada con prepotenza, attraverso l’architettura deve esprimersi l’essenza collettiva della città, gli edifici debbono dialogare tra loro a questo scopo. Il linguaggio dell’architettura deve perciò appartenere ad un registro medio. Allora l’architetto è tenuto ad adottare un doppio codice linguistico: un codice “apparente”, accessibile a tutti, e un codice “profondo”, tramite il quale rivelare i suoi molteplici significati. In definitiva l’architettura deve essere semplice, ma al contempo possedere una sua intrinseca complessità, un po’ come la poesia ermetica che esprime con poche parole un contenuto ricco e articolato, profondo, non immediatamente comprensibile ma soltanto percepibile.

L’architettura occidentale nasce da e con Vitruvio, che ci ha regalato l’unico trattato di architettura antica che ci sia pervenuto. Egli sostiene che il sapere dell’architetto deve essere ricco degli apporti di numerosi ambiti disciplinari e di conoscenze relative a vari campi: questo apre la questione attuale della multidisciplinarietà dell’architettura. Sociologia, antropologia, ingegneria, sono tutti strumenti per fare architettura, ma oggi questi ambiti del sapere invadono prepotentemente il campo dell’architettura. Ancora, Vitruvio parla di tre qualità che l’edificio deve possedere: la venustas (l’essere ben fatto, ben costruito, non la bellezza tout court), la firmitas e la utilitas. Il triangolo vitruviano può ridursi a un segmento, nel caso in cui si privilegino due delle tre qualità, o addirittura a un punto, nel caso se ne privilegi una sola. Ciò che è certo, a detta di Purini, è che oggi il triangolo vitruviano si è trasformato in un quadrato: l’altra qualità che l’architettura contemporanea deve possedere è la “comunicabilità”. L’immagine diventa simbolo, foriero di un determinato messaggio, di un significato altro.

L’abitare umano deriva da tre archetipi: la capanna primitiva, modello di costruzione ex nihilo, la grotta, esempio di uso di qualcosa che già esiste in natura, e la tenda, simbolo l’abitare temporaneo, che non appartiene al territorio, potendosi spostare dovunque. Gli architetti dispongono di tre strumenti fondamentali per fare architettura: il materiale costruttivo, inteso come trasformazione dalla materia prima; la luce, strumento per emozionare e insieme raccontare, il cui gioco sapiente con l’ombra crea sinfonie visivo–tattili; infine il peso: secondo Purini, l’architetto è grande quando riesce a trasformare la gravitas in leggerezza.

L’architettura ha una doppia natura, una autonoma e l’altra eteronoma. Nel primo caso essa è “poesia” perché il progettista, come il poeta, asseconda le sue emozioni, le sensazioni, le passioni; nel secondo caso essa ricorre alle altre scienze per essere compresa.
Benevolo afferma che l’architettura è l’ultimo anello di una catena che parte dalla politica, passando per l’economia, l’antropologia, ecc. Tafuri sostiene invece che l’architettura ha un suo specifico statuto conoscitivo, una sua storia, una sua memoria, quindi possiede una sua legittima autoreferenzialità.

Quale che sia la verità, questo scontro tra la presunta natura autonoma e eteronoma dell’architettura lascia spazio oggi a logiche atopiche, per cui non esistono più luoghi, è scomparso il radicamento al territorio, si è estinto il concetto di tipologia. Ed è proprio questo il grande limite che inficia la sostanza dell’architettura: oggi nessuno più si interroga sui valori fondativi dell’essere umano, ovvero l’appartenere, che sia a un luogo o uno stato – inteso come essere.

Barbara Brunetti

Barbara Brunetti Architetto

Architetto e dottoranda in Restauro, viaggia tra la Puglia e la Romagna in bilico tra due passioni: la ricerca accademica e la libera professione. Nel tempo libero si dedica alla lettura, alla grafica 3d, e agli affetti più cari. Il suo sogno nel cassetto è costruire per sé una piccola casa green in cui vivere circondata dalla natura.