Il degrado della città contemporanea e la responsabilità dei progettisti

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Sempre più persone rivelano interesse verso l’architettura tradizionale, ovvero quella realizzata con forme e materiali frutto di una lenta e progressiva sedimentazione culturale e storica, istintivamente percepita come maggiormente idonea ad accogliere lo scorrere della vita quotidiana e le sue esigenze. Le ragioni di questo richiamo, al di là di ovvie considerazioni revivalistiche, sono molto più pragmatiche di quanto si pensi, legate all’evidente degrado dilagante nelle nostre città, e stanno trovando via via conferme tra i progettisti grazie alla nuova consapevolezza che l’architettura ecosostenibile ha risvegliato, iniziando a dare il giusto credito a ciò che per molti anni si è volutamente dimenticato.

Approfondimenti: Il peso dell’architettura sulla qualità della vita e sull’ambiente

L’architettura tradizionale (inquadrabile come tutta quella che ha plasmato le città prima del regno omologante del calcestruzzo armato) se ha superato il vaglio dei secoli, e se ancora oggi desta fascino se non meraviglia, è principalmente perché vanta una plurisecolare sperimentazione tecnologica e formale, che ha consentito la progressiva selezione dei materiali e delle tecniche, (anche se non tutto ciò che si è conservato è automaticamente degno di virtù, così come alcune cose perdute avrebbero meritato altresì di perdurare).

«Le vere basi per ogni serio studio dell’architettura rimangono ancora nelle strutture indigene; i più umili edifici sono ovunque per l’architettura quello che il folklore è per la letteratura e il canto popolare è per la musica, anche se raramente gli architetti se ne interessano… Le forme di queste numerose strutture popolari appartengono al suolo». (Frank Lloyd Wright, The cause of Architecture, 1910)

Ma guardiamoci intorno: ci sembra che le nostre città rispecchino l’auspicio di Wright?

Oggi come mai la risposta è un secco NO. Ma questo lo sappiamo tutti (o quasi). Domandiamoci invece perché è successo, e come è possibile che ce ne siamo accorti così tardi. Una risposta c’è, ed è sempre più chiara. La sostenibilità dei processi edilizi e la questione dell’efficienza energetica hanno più che mai reso evidenti i limiti progettuali di larga parte della produzione edilizia contemporanea, che – seguendo i precetti dell’Intenational Style – si è caratterizzata per il suo degrado e l’abuso reiterato di scelte deleterie motivate spesso più dalla ricerca di inusitate e stupefacenti soluzioni formali che da effettive necessità costruttive e funzionali. Il Novecento è stato più che mai il secolo della Venustas (inseguita, ma non conseguita), con buona pace di Firmitas e Utilitas.

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I grandi maestri invece, al di là dei manifesti programmatici e delle enunciazioni teoriche, bensapevano coniugare nei loro progetti le conoscenze tecniche con l’esperienza e il gusto soggettivo, destreggiandosi con equilibrato virtuosismo tra la norma e l’eccezione, esprimendole attraverso l’intuizione frutto della propria sensibilità etica ed estetica.

Come spesso avviene però, i lasciti dei buoni maestri vengono colti da pochi, che poi proseguono meritevolmente per la loro strada; mentre sciaguratamente molti pedanti allievi preferiscono una pedissequa applicazione degli standard più ortodossi definiti in sede teorica, dunque applicando vuoti stilemi con irritante e cieco conformismo. Veri e propri assassini seriali dell’originalità (ovvero serialdesigners, più pericolosi dei serial killer poiché ancora non perseguibili penalmente).
Il risultato lo conosciamo: città via via più anonime, tristi e sgraziate (quando va bene); orrendamente tumefatte, mutilate nella loro identità e pericolose (quando va, spessissimo, male).

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Negli anni del boom siamo stati invasi da abitazioni che oltre all’esigenza di avere un tetto sopra la testa non erano in grado di assolvere a nessun altro bisogno umano, intrappolate com’erano in una fredda logica contabile (del tipo: quanti mq servono da normativa? X? Ecco fatto. Prossima stanza. Quanti mq qui? Y? Fatto anche ‘sto locale.). Ed ecco che lo spazio è regredito a numero, a superficie e a volume, confondendo semplice con banale, ed ecco che monetizzando l’equivoco (se di equivoco si è trattato), il mercato delle costruzioni, complici i progettisti mediocri, ci ha “regalato” un patrimonio edilizio squallido e avvilente,portatore di degrado caratterizzato da una rigida organizzazione degli spazi interni, pensati in funzione di una inesistente “famiglia tipo” (se qualcuno di voi la conosce, mi faccia sapere dove abita).

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L’Università qui non è esente da colpe, dato che molti futuri progettisti hanno ricevuto e ricevono tutt’oggi una formazione quasi iniziatica, per non dire religiosa: si comincia i primi anni ricevendo dalle mani del prof. Arch. Ing. le Sacre Tavole della Legge, ovvero questo o quell’architetto da venerare senza se e senza ma e si finisce col ridurre l’elevata arte (o il dignitoso mestiere) della progettazione ad un vuoto e ripetitivo esercizio di stile (puntualmente premiato all’esame quanto più inquadrato nei ranghi). E dire che anche copiare richiede fantasia, per non dire genio: è l’imitazione ad essere il rifugio del mediocre. Ecco uno dei motivi principali per cui moltissime abitazioni non possono essere chiamate case; e come potrebbero esserlo senz’anima?

E Belli dice: “A Trilù, ma che è ‘sta storia? / Trestevere sta a perde la memoria? / Vonno abbatte’n luogo de cultura, / Pe’ magnacce co’la speculazzione. / Se famo rifilà sta fregatura / Popo qui, ner rione der leone?”; con Trilussa che risponde: “A Gioacchì, te sveji adesso? / Stanno a trasformà Roma in un cesso. / Questi se pensaveno d’avé svortato, / D’avè scoperto qui la Merica… / Ma intanto er Rione s’è mobilitato: / Loro occupando, noi co’ la metrica”

Alberto Grieco

Alberto Grieco Architetto

Frequentando una signora chiamata Storia, ha scoperto che l’architettura bio-eco-ecc. non ha inventato Nulla©, ed è per questo che perde ancora tempo sui libri. Architetto per vocazione; tira con l’arco, gira per boschi, suona e disegna per vivere. Lavora nel tempo libero per sopravvivere.