Alghe in architettura, i fotobioreattori e le leggende urbane

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Recentemente è stato pubblicato l’ennesimo progetto di una torre, la Algae Green Loop, dotata di fotobioreattori, cui vengono attribuite proprietà quasi magiche di depurazione delle acque, autoproduzione di carburanti e perfino di cibo a partire dallo smog della città. Negli ultimi cinque anni si è assistito ad un’esplosione di simili progetti che tentano di giustificarsi sulla base di una supposta elevatissima efficienza delle alghe quali produttori

di olio da destinare alla fabbricazione di biodiesel. Milioni di euro sono stati destinati ad una ricerca, caldeggiata da gruppi politici, “freekies” ecologisti, scienziati più o meno ingenui od opportunisti talvolta comprati da multinazionali e anche qualche furbo che ha combinato truffe milionarie. Quando perfino la National Geographics manda in onda documentari sui combustibili del futuro affermando che la NASA sta conducendo le ricerche (cosa vera solo in parte) si è facilmente indotti a credere che ci si trovi di fronte ad una rivoluzione tecnologica!

Nemmeno gli architetti riescono a scappare al fascino del seguente ragionamento, apparentemente banale:

«il traffico e gli impianti di riscaldamento delle città producono diossido di carbonio, e gli abitanti producono fiumi di deiezioni che vanno a finire nelle fogne. Le acque fognarie contengono “molto” azoto, il quale è il nutriente fondamentale per consentire alle microalghe di assorbire “moltissimo”diossido di carbonio e siccome si riproducono “ad altissima velocità”, producono “tantissima” biomassa sotto forma di olio. Quindi, siccome per coltivare le microalghe “basta metterle” in tubi trasparenti riempiti di acqua e posti al sole, se copriamo le facciate degli edifici con questi tubi produrremo “tanto” olio per far andare le auto e allo stesso tempo elimineremo smog e contaminazione dalle acque fognarie».

Sembra un ragionamento logico. Tanto logico da innescare una proliferazione di progetti più o meno faraonici e virtuosismi di modellazione 3D, oltre che orde di autoproclamati “esperti” in algologia e progettisti visionari che credono, come un dogma di fede, che tutto ciò sia vero. Mea culpa, anche l’Autore ci credeva un tempo. Peccato che in base ai principi della logica, se almeno un presupposto di un ragionamento è falso, allora lo è anche la conclusione.

Vedremo di seguito perché quella delle alghe negli edifici non è altro che una moda basata su delle leggende urbane.

COS’E’ UN FOTOBIOREATTORE

Innanzitutto è opportuno sottolineare che un fotobioreattore è un particolare tipo di reattore biologico utilizzato per la ricerca sul metabolismo di microalghe e cianobatteri. Come ogni sistema biologico, la sua progettazione è soggetta a delle regole ben precise, ed il suo funzionamento stabile, anche in condizioni di laboratorio, è tutt’altro che facile. La foto mostra un fotobioreattore utilizzato dal Centro di Biologia Marina e Banco Spagnolo delle Alghe di Gran Canaria, con il quale l’Autore ha collaborato in un progetto di ricerca sul biogas da alghe. Sembra una banale bottiglia di acqua minerale capovolta. In realtà lo è, a dimostrazione che la complicazione tecnologica non è imprescindibile se si sa condurre un esperimento.

Il vero problema risiede nel pretendere di far funzionare i fotobiorreattori in grande scala, perché ciò consuma più energia di quanta se ne possa ricavare.

I MOTIVI PER CUI FAR FUNZIONARE I FOTOBIOREATTORI IN GRANDE SCALA CONSUMA PIU’ ENERGIA DI QUANTA SE NE POSSA RICAVARE

Microalghe e cianobatteri generano sempre degli esopolimeri, (qualcosa come una mucillagine) che li fa aderire alle pareti del cilindro. Lo strato di cellule incollate alla superficie trasparente blocca la luce, e le alghe che si trovano in sospensione nell’acqua all’interno muoiono “di fame” perché non riescono più a realizzare la fotosintesi. Uno dei motivi per i quali nel laboratorio utilizziamo le bottiglie di PET è precisamente perché dover pulire frequentemente dei fotobioreattori costruiti appositamente in vetro o plastica trasparente risulterebbe estremamente caro.

Per poter raggiungere una elevata densità cellulare nella soluzione di coltura, e dunque una produttività di biomassa accettabile, è necessario iniettare CO2 nel fotobioreattore. Ciò significa dover disporre di una fonte di CO2, abbastanza concentrato in modo da non dover pompare enormi volumi di gas, che peraltro solo in piccola percentuale si scioglie nell’acqua e serve a nutrire le microalghe, mentre il 99% si disperde nell’atmosfera. Spesso si fantastica sul fatto di assorbire la CO2 dall’aria delle città. Va ricordato che, anche in una megalopoli ad alta densità di traffico, il tenore di CO2 nell’aria è dell’ordine delle parti per milione. Perfino i gas di scarico di una caldaia a metano contengono appena fra l’8 e il 10% di CO2, tutto il resto è azoto e qualche traccia di ossigeno. Risulta dunque evidente che l’implementazione di un edificio come quello proposto dall’Influx Studio per l’Algae Green Loop comporterebbe un consumo enorme di energia elettrica, molta di più di quanta ne possa produrre il combustibile di alghe eventualmente raccolto.

– In genere, le alghe e i cianobatteri di interesse per un eventuale utilizzo energetico sono estremamente piccoli: dell’ordine di 10 micron. Filtrarli non è impresa facile, in quanto, oltre che risultare necessario l’utilizzo di particolari filtri autopulenti (energivori), la quantità di acqua da filtrare è esorbitante. Nel caso concreto del fotobioreattore mostrato nella foto, anche se l’acqua si vede quasi nera e sembra carica di biomassa di alghe, la quantità di sostanza secca (utile) non supera i 2 g per litro, ed è al limite biologico del sistema. La leggenda urbana dice che le microalghe sono la materia prima del futuro perché contengono fino al 60% di olio. Supponendo che fosse vero, per poter fare un pieno di biodiesel di alghe (50 l = 48 kg) sarebbe dunque necessario dover filtrare prima 40.000 l di acqua, evaporare tutta l’umidità della massa di alghe fresche ed infine estrarre l’olio da transesterificare. Compito piuttosto arduo, oltre che costosissimo in termini energetici.

In foto, il prof. García Reina, direttore del CBM, e la sua assistente campionano microalghe e cianobatteri “selvatici” nell’impianto di depurazione di acque fognarie di Aguinaga, Gran Canaria, Spagna.

Alghe-architettura-fotobioreattore-3Rispetto alla tanto decantata capacità delle microalghe di produrre olio, va detto che il menzionato 60% solo si raggiunge in condizioni di laboratorio con colture di ceppi algali puri (idealmente monoclonali), sottoponendo le cellule a determinate “diete” con basso contenuto di azoto e alto contenuto di diossido di carbonio e controllo della luce. Implementare questo controllo nutrizionale e mantenere la purezza della coltivazione utilizzando come substrato acque fognarie e come fonte d’illuminazione la luce solare, risulta pressoché impossibile.
Nella foto a destra, il primo concetto di fotobioreattore sperimentato dall’Autore nel 2007.

Non entro nei dettagli sui problemi strutturali che comporterebbe costruire delle facciate di vetro riempite di acqua, specialmente in grattacieli tanto alti come quelli rappresentati nei render 3D, per via della pressione alla base, normativa antisismica, ecc. .

È vero che la coltivazione delle alghe rappresenta un enorme potenziale per la cattura di CO2, ma piuttosto con lo scopo di produrre sostanze utili in farmacia e nutrizione. Ed il fotobiorreattore, per quanto fotogenico possa risultare nei rendering 3D, non è necessariamente la migliore opzione tecnologica per coltivare alghe su larga scala. Parola di uno che ci ha provato a costruirli e farli funzionare!












Mario Rosato

Mario Rosato Ingegnere

La sua passione sono le soluzioni soft tech per lo sviluppo sostenibile, possibilmente costruite con materiale da riciclaggio. Un progetto per quando andrà in pensione: costruire un'imbarcazione a propulsione eolica capace di andare più veloce del vento in ogni direzione.